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Samuel, 12 anni da innocente in un carcere del Sudafrica

«Dodici anni. Dodici anni. Dodici anni. Ma si rende conto?». Mentre lo ripete, scuote la testa Samuel Nndwambi, 54 anni, sposato e padre di tre figli. Ancora non si capacita di come possa essere capitata a lui quell’assurda vicenda che lo ha portato in carcere da innocente per tutto quel tempo. Vittima di un errore giudiziario per il quale, dice, non potrà mai perdonare lo Stato, il suo Stato: il Sudafrica. Un Paese dove, a differenza per esempio degli Stati Uniti, i casi di innocenti arrestati e condannati ingiustamente non sono censiti: non esistono statistiche ufficiali che calcolino le condanne ingiuste o le vittime di errori giudiziari.

L’arresto di Samuel

È l’inizio del 2006, Samuel è nel suo laboratorio da carpentiere a Thohoyandou (450 km a nord di Pretoria), sta ultimando un tavolo per un suo cliente. A un tratto irrompe la polizia: trambusto, voci concitate, le manette che scattano ai polsi. Mr. Nndwambi viene arrestato e portato via. «Perché mi fate questo? Che cosa ho fatto?», prova a chiedere. Per tutta risposta ottiene solo un laconico «Ne parleremo quando saremo arrivati alla centrale».

Qualche mese più tardi, dopo un processo molto veloce, Samuel viene trasportato nel carcere di massima sicurezza di Kutama Sinthumule per scontare la sentenza più dura possibile: ergastolo. Il reato per cui è stato condannato? Omicidio. Piccolo particolare: lui non c’entra nulla. A suo carico ci sono solo labili indizi, nessuna prova concreta. Non c’è niente da fare: al giudice sono bastati per rinchiuderlo dietro le sbarre per il resto dei suoi giorni.

Dovranno passare 12 anni, prima che la Suprema Corte di Appello ordini l’immediata scarcerazione di Samuel, il 14 giugno 2018, sottolineando come la condanna fosse stata emessa sulla base di troppo pochi elementi per distruggere la vita di un uomo innocente.

«La vita è durissima quando sei rinchiuso in una cella, specie se sei innocente. Ti svegli al mattino e sai di non aver fatto nulla, ma sei circondato da persone che invece hanno effettivamente commesso crimini anche molto violenti. Ti senti perduto, non sai che cosa ci fai lì, e non c’è niente che tu possa fare, nessun luogo dove possa andare». Mentre parla di quegli anni in carcere, gli occhi di Samuel non fissano mai un unico punto, le gambe non smettono di muoversi. Si vede che ricordare lo mette profondamente a disagio.

Quell’unica accusa contro Samuel

Per quell’omicidio, la cui vittima era il preside di una scuola della città, furono accusati in quattro. Ma solo uno di loro era davvero colpevole (il suo Dna fu in effetti rinvenuto sul luogo dell’omicidio) e cercò di scaricare le sue responsabilità coinvolgendo gli altri, inventando per ciascuno di loro un ruolo nel delitto. Ecco, fu proprio e soltanto la chiamata in correità l’elemento su cui poggiò l’accusa a carico di Samuel. E paradossalmente, proprio lo stesso elemento che sarebbe stato considerato insufficiente dalla Suprema Corte d’Appello sudafricana per condannare all’ergastolo il carpentiere. Basti pensare che Samuel, prima di quel giorno che cambiò la sua vita, aveva incontrato chi lo accusava solo un paio di volte in vita sua.

Le sue parole

«Non penso che sarò mai capace di perdonare lo Stato per quello che mi ha costretto a passare. Non è giustizia, quello che mi hanno fatto».

«Come sono andato avanti tutti questi anni? Non smettendo mai di credere in me stesso e nelle mie possibilità. No, non mi sono fatto degli amici in carcere: erano solo persone che condividevano gli stessi spazi, amici proprio no».

«Il giorno in cui mi vennero a comunicare che sarei uscito, stavo lavorando in lavanderia. Saranno state le quattro del pomeriggio. All’inizio mi spaventai, perché non ero sicuro di dove mi avrebbero davvero portato: temevo potesse essere una bugia, tra quelle mura capita di tutto, così mi rifiutai. Poi arrivò un agente anziano che mi spiegò tutto per filo e per segno. Riuscì a convincermi. Così tornai a casa da mia moglie e dai miei figli».

«Tutti i miei amici di allora mi hanno abbandonato: oggi ho solo la mia famiglia. I miei figli lavorano, sono quelli che mi hanno comprato i vestiti che indosso in questo momento, quelli che comprano il cibo che mangio ogni giorno. Sono felici che il loro papà sia di nuovo con loro».

«No, non faccio più il carpentiere e non ho neanche più i miei vecchi strumenti da lavoro. Le prospettive di un nuovo impiego? Minime, se non inesistenti».

 

(fonte: The Citizen)

Ultimo aggiornamento: 3 ottobre 2018

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