C’erano neri, bianchi ed ispanici, uomini diversi tra loro per classe sociale, età e cultura, tutti uniti da un destino comune: un terribile passato, un futuro indefinibile e un faticoso presente da costruire. Per anni sono stati dead men walking, esseri umani condannati a morte dai loro simili, oggi ancora vivi solo grazie a un Dna, a una botta di fortuna o alla dedizione di uomini della legge più scrupolosi di altri. Erano una trentina quelli che hanno risposto all’appello di Witness To Innocence (l’organizzazione che riunisce i “sopravvissuti alla pena capitale” e i loro familiari) e che si sono radunati a Filadelfia per rendere pubblica la loro esperienza, per scambiarsi consigli pratici, per gridare la loro rabbia e soprattutto per chiedere giustizia per chi, innocente come loro, langue ancora in un oscuro braccio della morte.
Sono arrivati da ogni angolo degli States, in una città-simbolo come quella della Pennsylvania dove è nata la Costituzione, tutti con alle spalle lo stesso percorso da incubo. Iniziato con menzogne (di altri), errori giudiziari, false testimonianze, difensori d’ufficio incapaci, incompetenti (e quasi sempre inutili), confessioni estorte con l’inganno o con le minacce. Proseguito con un processo in cui la verità (falsa o almeno incerta) era già stata scritta, con la prigione, l’isolamento, i compagni di sventura del braccio della morte ammazzati da una camera a gas, una sedia elettrica o un ago con il veleno infilato nel braccio. Un incubo che spesso ha visto come vittime i più poveri, i più indifesi (ritardati mentali compresi) e un razzismo più o meno velato.
Manuel Velez è l’ultimo, liberato mercoledì scorso dalla prigione di Huntsville (Texas) dopo aver trascorso nove anni nel braccio della morte. Era accusato di un omicidio orribile, quello di un bambino di un anno, figlio della sua (ex) girlfriend, morto per un trauma al cervello. Non poteva che averlo percosso a morte lui, sentenziarono esperti di ogni genere, la condanna fu inevitabile. Ma nessuno aveva letto il rapporto medico che segnalava con precisione quando era avvenuto il trauma: quel giorno Manuel era lontano mille miglia dal Texas.
«Siamo passati tutti attraverso le stesse situazioni», racconta Sabrina Butler, la sola donna che fa parte del gruppo dei condannati riabilitati. Era una giovane madre afro-americana del Mississippi quando venne riconosciuta colpevole di avere ucciso il suo bambino ancora in fasce, appena nove mesi di vita. Morto in realtà nel sonno a causa di una malattia ereditaria. «Ho passato 23 ore al giorno chiusa in una celletta, sapendo che il giorno della mia morte era sempre più vicino e non potendo fare nulla». Cinque anni di prigione, 33 mesi nel braccio della morte e gli incubi «che sono presenti di giorno e ritornano ogni notte».
Dal 1973 sono 146 i condannati a morte che in 26 diversi Stati sono stati poi riconosciuti come innocenti. Per tutti il vero problema, dicono i volontari di Witness To Innocence (l’organizzazione è stata fondata nel 2003 da Helen Prejean, la suora diventata famosa per il film Dead Man Walking, insieme a Ray Krone, il “riabilitato numero cento”), è quello del cosiddetto stress post-traumatico. Un difficile, a volte impossibile, riadattamento alla vita di ogni giorno, ad una realtà che molti non ricordano o che non hanno mai conosciuto, un po’ come avviene per i soldati americani che sono tornati dagli inferni dell’Iraq o dell’Afghanistan. «Si trovano di fronte una società che non ha più nulla a che vedere con quella che avevano lasciato da uomini liberi, prima del processo e della condanna. Molti non hanno mai usato un cellulare, qualcuno non l’ha mai visto».
Randy Steidl è oggi uno dei leader di Witness To Innocence, uno dei più impegnati ad organizzare eventi come quello di Filadelfia. Nelle prigioni dell’Illinois ha trascorso 17 anni di cui 12 passati in isolamento nel braccio della morte. Era stato condannato nel 1986 per il duplice omicidio di una coppia appena sposata, Dyke e Karen Rhoads, a nulla era servito il fatto che fosse stato uno dei primi a collaborare con la polizia per risolvere il caso. Il suo avvocato si disinteressa, la polizia e i politici locali premono per una condanna, compaiono un paio di testimoni fasulli e il misfatto è compiuto. Saranno, molti anni dopo, un paio di testardi detective della polizia statale a riaprire il caso e finalmente nel 2004 un giudice onesto renderà Randy di nuovo un uomo libero. «Quando sono uscito dal carcere non sapevo neanche usare una pompa automatica, non avevo mai usato Internet, non avevo mai visto un computer portatile. Ho dovuto imparare tutto quello che serve a vivere nel mondo di oggi. Molti di noi non trovano un lavoro, sono comunque degli ex carcerati».
Lui, come gli altri trenta, è oggi in prima fila per chiedere giustizia: «Il governo federale è personalmente responsabile degli errori giudiziari. Che ci dia almeno dei soldi per permettere di vivere a chi ha attraversato innocente l’inferno».
(Alberto Flores D’Arcais, la Repubblica, 13 ottobre 2014)