Franco Califano (che proprio quest’anno, in questi giorni, avrebbe compiuto 80 anni) è stato un personaggio molto discusso. Amato, perfino idolatrato dai suoi fans; odiato, a tratti detestato dai suoi numerosi detrattori, incapaci di separare il suo talento di artista (autore di alcune tra le più belle canzoni della storia della musica italiana), indispettiti dal suo successo e da quel cliché di sciupafemmine, “bello e dannato”, artista con amicizie pericolose.
Proprio queste amicizie lo hanno portato, nella sua carriera, ad avere problemi con la giustizia. Franco Califano finì in carcere con accuse pesantissime: traffico di droga e associazione per delinquere di stampo camorristico. Rientrò nella maxi operazione che portò all’arresto di Enzo Tortora. Lo accusava soprattutto un pentito eccellente, lo stesso che fu alla base della tragedia di Tortora: Gianni Melluso, detto “Gianni il bello”, mitomane, prezzolato dalla camorra per demolire personaggi che in quel periodo erano su tutti i giornali.
Melluso aveva raccontato ai giudici di aver consegnato droga a Franco Califano in almeno due occasioni: nel sottoscala del “Club 84” a Roma e nell’abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel “Club 84” il sottoscala non c’era; e Califano non ha mai abitato a corso Francia. Non basta: Califano, in compagnia di camorristi, aveva effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto in vita sua.
Rispetto a Tortora, quella di Franco Califano fu una vicenda meno tragica. Ma l’ingiustizia c’era: alla fine il cantante fu scagionato completamente da ogni accusa. Ma fu costretto a restare diversi mesi in carcere, a subire processi da innocente, oltre a una gogna mediatica enorme. In pieno periodo di detenzione, uscì un’intervista (di Francesco D. Caridi per “Il Borghese” del 21 ottobre 1984) che – letta oggi – resta attualissima. Califano descrive la sua vicenda e ci sembra quasi di leggere una delle tante storie di errori giudiziari e ingiuste detenzioni che si verificano continuamente.
Franco Califano, il cantautore accusato da un «pentito» di essere affiliato alla camorra, sta trascorrendo l’ultimo giorno di degenza in una cameretta del secondo piano dell’Ospedale San Filippo Neri, dove è stato ricoverato dopo un malore avuto nel carcere di Rebibbia. L’indomani rientrerà a casa, ma non libero: agli arresti domiciliari, resigli particolarmente duri dal divieto (lo revocheranno?) di usare il telefono e di ricevere amici. Sul letto d’ospedale sono sparpagliate molte lettere di solidarietà, che Califano legge attentamente. Una delle infermiere gli comunica sovente chiamate telefoniche di sue ammiratrici. Il cantautore non potrebbe ricevere nessuno, tranne l’avvocato e i familiari. È il primo pomeriggio. Incontriamo Califano prima che vengano a visitarlo la madre, la sorella e un nipote diciassettenne. Si sfoga subito con amara ironia. Dice: «Hanno fatto il cambio: fuori Tortora, dentro Califano. Altrimenti che avrebbero detto gli altri seicentoquaranta imputati in carcere… Non si spiega perché il mio arresto sia avvenuto dopo un anno dall’apertura dell’istruttoria. Non mi si può dire che il pentito si sia ricordato di me dopo un anno, perché, in mezzo a seicentoquaranta sconosciuti, i primi nomi che vengono alla mente sono quelli di Califano e di Tortora. E invece mi tirano in ballo dopo un anno.»
Califano, hai notato una diversità di trattamento dell’opinione pubblica nei tuoi confronti rispetto a Enzo Tortora?
«Tortora è l’immagine dell’Italia pulita, io ho la faccia del colpevole… Comunque ho avuto solidarietà da parte di tutti i cantanti, dal primo all’ultimo. Anche uomini politici sono venuti a trovarmi. Grippa, del Partito socialista, ha fatto un appello in mio favore direttamente a Pertini».
Tu sei imputato di associazione a delinquere di stampo camorristico e di traffico di droga. Ciò è molto grave.
«Sono stato dichiarato camorrista dall’oggi al domani. È assurdo! Non ho mai conosciuto uno dei miei coimputati. Facevo spettacoli dappertutto, posso averne fatto uno anche per Cutolo, fatto sta però che Cutolo ai miei spettacoli non c’è mai stato. Posso aver fatto uno spettacolo in un locale di proprietà di un camorrista, ma chi poteva saperlo? Io bado soltanto ai contratti, ai soldi, e canto. Basta così».
Quando hai incontrato Melluso soprannominato «faccia d’angelo», il tuo accusatore?
«L’ho visto per la prima volta al confronto giudiziario. Mi ha guardato con una faccia…”Franchino, dicci la verità…”, mi diceva, che faccia… È incredibile come i giudici possano rimanere coinvolti nelle chiacchiere di un tipo simile. “Sei scemo!”, gli ho risposto, e mi stavo alzando… Aveva cinque carabinieri attorno. I giudici avrebbero dovuto verificare le fesserie che Melluso diceva, ma non l’hanno fatto. Ha detto di avermi consegnato chili di “roba” a casa mia, in Corso Francia, nel sottoscala del numero 84. Ma io in Corso Francia non ho mai abitato, e per giunta s’è scoperto che al numero 84 non esiste sottoscala. Che vadano a vedere, a controllare. Questo è il mio processo, tre paginette di istruttoria contro le centocinquanta di Tortora e le trecento di ognuno degli altri. Sono un imputatino così».
Certo che tu non sei nuovo ad esperienze di carcerazioni…
«No, e non escludo di ritrovarmici ancora in questo paese di merda, non escludo di ricadere in una trappola, te l’assicuro. Perché quando capiti in un ingranaggio, in questo schifo di paese che si dice civile… » (A questo punto la voce di Califano s’incrina per un attimo. Il cantautore fa una pausa ad occhi bassi, poi riprende.) « Il pentito non è credibile se non ci sono i riscontri. Ho detto ai giudici: “Andate a verificare e vedrete che questo Melluso vi sta prendendo per i fondelli, chissà da quanto tempo, pur di avere una riduzione di pena”. Certo, io ho precedenti penali, e quindi non sono credibile».
Pensi che possa essere stato innescato da qualcuno un meccanismo di vendetta?
«E chi avrebbe potuto, e perché? Melluso è pazzo, basta vederlo, non c’è nemmeno bisogno di interrogarlo».
Come giudichi il caso del tuo collega Vasco Rossi, arrestato per spaccio di droga, ma prontamente rimesso in libertà?
«Ti dico soltanto questo: che se un giorno mi trovassero in casa soltanto cinque grammi di cocaina, mi darebbero l’ergastolo. A me non hanno trovato mai niente, sono vent’anni che cercano…».
In carcere, come sei stato trattato dagli altri detenuti e dalle guardie?
«Sono stati tutti gentili. Se ti comporti bene, da uomo, nessuno ti dà fastidio».
Come giudichi l’operato dei magistrati?
«Il giudice ha un enorme potere in mano. Si guardi, ad esempio, il caso del brigatista Naria. S’incavola Pertini, s’incavola Craxi, ma il magistrato gli rifiuta gli arresti domiciliari. Io non credo più al motto “La legge è uguale per tutti”. Uguale per chi? Sono parole, dovrebbero toglierle dai tribunali. Succedono cose che hanno dell’incredibile: ti torturano psicologicamente, sono diventati carnefici».
La tua attività discografica è bloccata. Ce la farai a riprenderla?
«Ho avuto perdite considerevolissime in seguito a questa vicenda. C’è poi l’incognita: non so che situazione troverò, una volta in libertà. Sono preoccupato per il mio lavoro e perla mia salute. A me hanno dovuto dare gli arresti domiciliari per forza, c’erano i cardiogrammi. Intanto ho scritto una canzone per un nuovo disco, dal titolo “Impronte digitali”, che riecheggia un po’ la mia esperienza. La inciderò a casa mia, se me lo permetteranno. Dovrò far portare tutto il banco d’incisione, spero che non mi neghino il permesso. Eppoi mi hanno vietato l’uso del telefono. Assurdo! Se pensano che lo possa usare malamente, possono mettermelo sotto controllo. E se ho bisogno di un aiuto, che faccio? Io vivo da solo. Tanto valeva stare a Rebibbia… ».
Che cosa pensi della scelta parlamentare di Tortora?
«Io non avrei mai accettato di candidarmi. Tortora ha fatto un passo pericoloso, non rientrerà più nel mondo dello spettacolo. Dovrà fare soltanto politica. Per uno come lui che si trova, a cinquantacinque anni, a fare l’onorevole dopo una vita di spettacolo, è terribile».
Ventisei anni dopo, in un’intervista a Riccardo Bocca dell’Espresso, lo stesso Gianni Melluso ammetterà di aver inventato tutto: così come già accaduto nei confronti di Enzo Tortora, aveva incastrato Franco Califano sulla base di pure invenzioni:
«Devo chiedergli perdono, perché oltre a essere innocente, è stato al mio fianco in serate indimenticabili alle quali partecipava il boss Francis Turatello. Califano è padrino di battesimo di suo figlio. Consumava cocaina, amava fare la bella vita e si circondava di donne, ma non è mai stato uno spacciatore: soltanto un grande artista che la camorra mi aveva chiesto di screditare».
(Ultimo aggiornamento: 15 settembre 2018)