Lelio Luttazzi, uno dei più popolari showmen dello spettacolo italiano negli anni 60 e 70, fu vittima di un clamoroso errore giudiziario che lo costrinse a 27 giorni di carcere da innocente, proprio quando era tra i personaggi più amati dal pubblico. Per raccontare il suo dramma, per denunciare lo stato della giustizia italiana e il problema degli errori giudiziari, Lelio Luttazzi scrisse, diresse e interpretò un film: “L’illazione“. Era il 1972, un anno dopo il suo proscioglimento dalle accuse di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti.
In quarant’anni, la Rai non ha mai mandato in onda il film di Luttazzi. Poi, grazie alla dedizione della vedova Rossana Luttazzi e al restauro realizzato da «L’immagine ritrovata» di Bologna con la supervisione di Cesare Bastelli, qualcosa si è sbloccato. E il canale “Rai 5”, sul digitale terrestre, ha messo in palinsesto “L’Illazione”.
Girato con pochi mezzi in gran parte in una villa nella campagna romana dove un gruppo di persone si ritrova a cena, L’illazione è un’opera di appena 60 minuti che risente del clima e delle mode dell’epoca, con molti dialoghi e qualche digressione onirica. Il cuore della storia invece – gli errori dei giudici – è di un’attualità sconvolgente. E conserva la forza di un pamphlet.
Fu proprio la moglie del musicista e showman, Rossana Luttazzi, a ritrovare nel 1978 la pizza originale della pellicola durante un trasloco:
«”E questa cos’è?”, chiesi a mio marito. “È un film di qualche anno fa. L’ho scritto, girato, interpretato. Ma non se n’è mai parlato perché è contro un giudice”, tagliò corto lui». Tempo dopo, pur di vederlo, la moglie lo fece riversare in una cassetta vhs. «Ma Lelio non volle rivederlo. “Mi fa male… Lo sai che cosa mi ricorda… Non parlarmene più”, protestò. Così lasciai perdere».
Nel 2010, pochi mesi dopo la morte del marito, la signora Luttazzi diede vita alla Fondazione Lelio Luttazzi.
«Era il modo per continuare a occuparmi di lui, come avevo fatto per 36 anni. Mostrai “L’illazione” a un amico critico cinematografico, che mi spronò assolutamente a fare qualcosa perché il film di Lelio lo meritava».
La storia raccontata nel film è amara, drammatica e tristemente attuale.
Con tanto di barba anticonformista, Luttazzi è uno scrittore deciso ad aiutare l’amico medico (Mario Valdemarin) caduto in depressione a causa delle lettere anonime che lo accusano di aver praticato l’eutanasia sul figlio neonato e sub-normale. Tra un bicchiere di vino e un disco jazz, lo scrittore sottopone la vicenda a un ambiguo magistrato (Alessandro Sperlì), acquirente del terreno adiacente la villa.
Le cose però non vanno per il verso giusto e il giudice imbastisce a sorpresa una sorta di processo kafkiano in cui le vittime, in un susseguirsi di dialoghi acuminati, si trasformano in indiziati. «Tra noi intellettualoidi e voi magistrati c’è una differenza», osserva lo scrittore Luttazzi. «Mentre voi presumete di conoscere di volta in volta la verità noi viviamo nel dubbio perenne, come Socrate. Un brindisi alla cicuta!».
Il magistrato: «Lei è un artista, il nostro mestiere lo lasci a noi. Il popolo ha bisogno di essere rassicurato da una giustizia energica, severa, dura se serve». E così, in attesa di un caffè anti-abbiocco, il giudice severo e duro mette nel mirino il medico taciturno. «Di che cosa dubita», gli chiede lo scrittore. «Di niente, non sono un socratico. Focalizzo dei concetti». «O dei preconcetti», precisa Luttazzi prima di condensare la sua denuncia: «Quindi, lei che ha il potere di decidere della libertà e della vita di tutti noi si abbandona all’illazione come fanno quelli che stanno massacrando il mio povero amico. E magari a questo sistema si abbandona anche nella sua professione. Eh già, tanto anche se sbaglia, a chi deve rispondere, eh?».
Alcune frasi pronunciate nel film da Lelio Luttazzi fanno riflettere ancora oggi, a distanza di così tanto tempo:
«In una società ben organizzata chi ha responsabilità sociali andrebbe psicanalizzato prima di essere immesso nella professione. Certe tendenze negative che fanno parte della nostra natura, sadismo, volontà di potenza, narcisismo, esibizionismo … possono spingerci a scegliere professioni dove possiamo meglio soddisfarci rimanendo al coperto». «E perché io dovrei psicanalizzarmi e lei che è scrittore no?», chiede il magistrato. «Perché io non ho il potere di mandare in galera la gente».
(fonte: Il Giornale)
Ultimo aggiornamento: 27 ottobre 2011