«Controllo dopo controllo, è affiorata la scoperta più sconvolgente: la camorra non era costituita dal killer, dall’estorsore, dal rapinatore, ma anche da soggetti che appartengono a categorie e professioni insospettabili». Era il 1985. Lucio Di Pietro, allora pubblico ministero alla procura di Napoli, di dubbi ne aveva pochi. Da un paio d’anni, era la punta di diamante del pool di magistrati che indagavano sul traffico di stupefacenti legato ai clan della camorra.
Più che un’inchiesta, un terremoto. Nel 1983, la maxi retata: furono 412 le persone mandate agli arresti. E tra questi, c’era anche il «professionista insospettabile». Enzo Tortora, popolarissimo presentatore televisivo.
Ne era certo, Di Pietro. «Sì – spiegava – ho indagato su Tortora. Nessuna confessione è stata mai presa per oro colato. Su ogni circostanza abbiamo cercato riscontri, con un minuzioso lavoro di setaccio. Non abbiamo mai fatto un passo senza aver accertato tutto il possibile».
Ma le cose, dirà la Storia, dovevano andare in un altro modo. Perché Enzo Tortora, dopo sette mesi di carcere e cinque di arresti domiciliari – e dopo una condanna in primo grado a 10 anni di reclusione – venne definitivamente dichiarato innocente. A sostenerlo i Radicali.
Tortora nel 1984 viene eletto europarlamentare. Quattro anni dopo il suo arresto, il 17 giugno 1987. Meno di dodici mesi dopo, Tortora morì. E Di Pietro? Il pubblico ministero, il grande accusatore, fece carriera. Un cursus honorum degno di un eroe civile.
Ed è così che, ieri, Lucio Di Pietro si è trovato davanti alla prima commissione del Consiglio Superiore della Magistratura. Convocato a Palazzo dei Marescialli per le audizioni sul «caso De Magistris». In qualità – nientemeno – di procuratore generale di Salerno. È il punto d’arrivo di un percorso professionale fatto di successi e riconoscimenti. Nonostante tutto. Nonostante il grande abbaglio preso ormai venticinque anni fa. Perché Di Pietro (nessuna parentela con l’onorevole dell’Italia dei Valori) scala quasi tutti i gradini dell’Antimafia.
Lui, uomo simbolo di un’inchiesta che si rivelerà uno dei più gravi e infamanti errori giudiziari della storia italiana, già nel 1992 viene eletto coordinatore della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Napoli. Poi, a partire dall’11 gennaio dell’anno successivo, diventa sostituto procuratore della Dia, la Direzione investigativa antimafia, secondo soltanto ad Agostino Cordova, allora procuratore distrettuale nel capoluogo partenopeo. Ma non è ancora finita. Nell’agosto del 2005, infatti, Lucio Di Pietro assume ad interim l’incarico di procuratore nazionale Antimafia aggiunto, prendendo il posto di Pier Luigi Vigna, conquistando così un incarico che sarebbe spettato al procuratore di Palermo Piero Grasso. Ma per un gioco di anzianità, è Di Pietro a sedersi sulla poltrona più prestigiosa. E dall’Antimafia, di ritorno alla procura di Salerno.
Una carriera luminosa, nonostante tutto. E nonostante le ispezioni ministeriali promosse in seguito all’assoluzione di Tortora (che non diedero risultati), e il plenum del Csm (che nel 1989 votò a maggioranza l’archiviazione di tutte le accuse rivolte ai magistrati).
L’unica voce fuori dal coro fu quella di Giancarlo Caselli, che denunciò la «sciatteria» e le «gravi omissioni» dei pm napoletani che mandarono Enzo Tortora in carcere. Un’inchiesta che – passo dopo passo – rivelò tutta la sua debolezza.
Dei 412 presunti camorristi arrestati, infatti, 87 vennero scarcerati più o meno presto perché arrestati per sbaglio o anche semplicemente per casi di omonimia, una sessantina furono assolti già in primo grado e altri 144 in appello. E tra loro, il presentatore televisivo. Che in carcere si ammalò di tumore, e per quel male morì dopo una battaglia per affermare la propria innocenza. Mille e 185 giorni di battaglia.
Sull’onda emotiva del caso, si pensò di introdurre il principio della punibilità dei magistrati per «colpa grave». Non se ne fece nulla. E nulla toccò a Lucio Di Pietro, che continuò a scalare i gradini della categoria. Fino a tornare protagonista, oggi. In una guerra tra procure che non ha precedenti. Qualcuno, tra quelli che con lui misero in carcere il volto familiare di Portobello, decise di defilarsi. Armando Olivares, sostituto procuratore generale e pubblica accusa nel processo d’Appello contro il presentatore, assicurò che «se assolverete Tortora, mi dimetterò».
Il 10 novembre 1987, letta la sentenza, Olivares si tolse definitivamente la toga. Di Pietro no.
Così, ieri, davanti al Csm magari avrà assicurato di «non aver mai fatto un passo senza aver prima accertato tutto il possibile». Oggi come allora. Quando «un uomo per bene» venne condannato a 10 anni di carcere. Da innocente.
Lucio Di Pietro è morto il 7 dicembre 2018, all’età di 77 anni. Era andato in pensione due anni prima.
(fonti: il Giornale, Ansa)
Ultimo aggiornamento: 7 dicembre 2018