Arrestato con l’accusa più grave per un poliziotto: concorso in traffico internazionale di stupefacenti. Torturato fino a confessare un reato mai commesso. Costretto all’umiliazione del carcere da innocente, alla frustrazione di dover restituire distintivo e pistola d’ordinanza. Una carriera rovinata, la reputazione distrutta. Trentun anni, un mese e quattro giorni dopo, la verità: Angelo Cangianiello è stato vittima di un errore giudiziario. E c’è voluta tutta l’abilità dei due più bravi specialisti nel liberare innocenti in carcere, gli avvocati Pardo Cellini e Baldassare Lauria (gli stessi del caso Giuseppe Gulotta, per intendersi), per dimostrarlo.
Angelo Cangianiello è sposato e ha tre figli. Oggi gestisce una tabaccheria. Lo intervistiamo pochi minuti dopo la sentenza, appena uscito dalla Corte d’Appello di Roma. Angelo Cangianiello è ancora frastornato, felice, un po’ spaesato: “Quando, già all’inizio del processo, ho sentito che la Procura Generale della Repubblica chiedeva ai giudici di assolvermi per non aver commesso il fatto, ho capito che le cose si stavano mettendo bene. Ma fino all’ultimo quasi non volevo crederci…”.
Torniamo a quel 1986 quando tutto ebbe inizio.
Ero in servizio a Roma da 4 anni. Ma già dopo due mi ero fatto apprezzare al punto che mi destinarono alla Presidenza del Consiglio, ufficio scorte. Per me, un ragazzo di Caserta di 24 anni, era un ottimo trampolino per la carriera: lavoravo per politici come Claudio Martelli, magistrati come Ferdinando Imposimato.
Poi cosa accadde?
Il 3 marzo vengo convocato d’urgenza all’autoparco della Presidenza del Consiglio. Non mi stupisco più di tanto, penso mi debbano comunicare un cambiamento dei vertici o qualcosa di simile. E invece quando arrivo mi viene chiesto di mettere sul tavolo tesserino, manette e pistola di ordinanza. Continuo a non vederci nulla di strano: penso a una verifica a campione della mia manutenzione degli oggetti in dotazione. Poi però, vengo ammanettato. Non capisco, chiedo lumi, ma niente: nessuno mi dice nulla. Mi mettono in un’auto diretta a Caserta.
Quando capì cosa le stava succedendo?
I colleghi non mi dicevano nulla. Solo al mio arrivo alla questura della mia città natale, mi rendo conto: il sostituto procuratore di Caserta ha disposto decine di arresti per un’inchiesta sul traffico di stupefacenti. Dalle 11.30 alle 18 vengo tenuto in manette dentro una stanza con un collega che ancora oggi non riesco a definire tale.
È in quella stanza che fu torturato?
Sì. Tra una sessione e l’altra di domande da parte del sostituto procuratore, questo poliziotto mi picchiava ripetutamente. Schiaffi sul viso, pugni ai fianchi e allo stomaco. Mi stringeva i testicoli tra le mani con tutta la forza, urlavo per il dolore, mi veniva da piangere. In quelle condizioni, mi creda, chiunque sarebbe disposto ad autoaccusarsi di qualunque reato.
E lei confessò?
Sono stato fatto nero, mi hanno massacrato. Ero impaurito, confuso. E non mi era neanche stato concesso un avvocato. Quando arrivò, un civilista individuato da mio padre, si limitò a firmare in fretta il verbale per presa visione senza neanche fare una domanda o accertarsi di come fosse andato l’interrogatorio. E finii nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere.
Quanto ci rimase?
Le prime tre settimane in isolamento, poi altri tre mesi. Quindi altri 5 mesi agli arresti domiciliari.
Di cosa era accusato?
Sostenevano che avessi fatto da intermediario per un acquisto di droga tra un trafficante e due esponenti di una banda, uno dei quali era mio fratello. Ma quell’inchiesta era piena di buchi: il presunto trafficante era un elettricista che ancora oggi fa l’elettricista, invece di godersi i milionari proventi illeciti nei mari del Sud. E infatti, come i miei avvocati sono riusciti a scoprire, fu assolto con formula piena e con sentenza definitiva già in primo grado. Non solo: la mia presunta intermediazione tra l’elettricista e mio fratello con l’amico era avvenuta in un bar, davanti a tante persone che mi conoscevano, e solo per una mia frase scherzosa in cui comunque specificavo ad alta voce che ero un poliziotto e non volevo avere a che fare con certi ragazzacci.
La condannarono con sentenza definitiva.
In primo grado, a un anno e 6 mesi. Pena confermata anche in secondo grado. Dopo la sentenza di primo grado dovetti subire l’umiliazione di tornare a Roma, presso il ministero degli Interni, per restituire tutto quello che mi restava della dotazione da agente di polizia. Ricordo ancora il disprezzo e gli sguardi dei colleghi.
Perché pensa le sia accaduto tutto questo?
In questi anni me lo sono chiesto più volte e non ho mai trovato una risposta. Forse davo fastidio, ero bravo nel mio lavoro, avrei fatto carriera.
Chi ha sbagliato nella vicenda di Angelo Cangianiello?
I giudici del primo grado secondo me sono stati superficiali: ancora non mi spiego come non abbiano potuto capire che non c’entravo nulla. Lo gridavo fin dal primo giorno, ma nessuno mi ha mai voluto ascoltare.
Cosa le resta di questa storia?
Ho una famiglia d’oro, quella che all’epoca era la mia fidanzata è diventata mia moglie e la madre dei miei tre figli: ho aspettato che fossero un po’ grandicelli, per raccontare loro tutta la verità. Ma è stata dura.
Si può imparare qualcosa anche da drammi come il suo?
Ho capito una cosa: che almeno una parte della giustizia funziona.
(Benedetto Lattanzi & Valentino Maimone)
aggiornato al 7 aprile 2017