Vittorio Pisani

Storia del super poliziotto prima infangato, poi riabilitato dopo 4 anni

Lo hanno accusato di aver spifferato a un imprenditore, nei cui locali veniva riciclato il denaro della camorra, dell’esistenza di un’indagine sul suo conto; gli hanno contestato, facendo affidamento sulle dichiarazioni di un pentito poi processato per calunnia, il favoreggiamento e la rivelazione del segreto d’ufficio; gli hanno «macchiato» la carriera con ipotesi di reato infamanti e infine lo hanno processato due volte: assolto la prima «perché il fatto non sussiste» e con formula piena anche la seconda. Vittorio Pisani, l’ex capo della squadra mobile di Napoli che ha assestato colpi decisivi al clan dei Casalesi, consegnando alla giustizia, dopo anni di latitanza, boss del calibro di Antonio Iovine e Michele Zagaria, è dunque un uomo innocente. Lo è sempre stato. Ed è per questo che, dopo quattro anni di calvario giudiziario, le accuse sul suo conto sono crollate, cancellate dalle sentenze. E ora è diventato uno dei tanti uomini in divisa finiti da innocenti nelle maglie della giustizia.

Eppure nel 2011 la procura di Napoli, allora guidata dal procuratore Giandomenico Lepore, lo indagò spedendolo in «esilio» con un divieto di dimora; lo accusò di aver rivelato notizie riservate al ristoratore Marco Iorio, e da questi riferite a un secondo imprenditore, Bruno Potenza, consentendo a entrambi di parare i colpi degli inquirenti; e infine lo ritenne responsabile di non aver indagato, pur essendone a conoscenza, sui loro capitali illeciti derivanti dai clan camorristici. E quando i suoi difensori si rivolsero al tribunale del Riesame per chiedere l’annullamento del divieto di dimora, il gip non solo disse no, ma nelle motivazioni riportò un verbale d’interrogatorio nel quale il boss pentito Salvatore Lo Russo affermava di aver consegnato a Vittorio Pisani anche del denaro, facendo così scattare l’accusa di corruzione.

Vittorio Pisani, ex capo della squadra mobile di Napoli
Vittorio Pisani, ex capo della squadra mobile di Napoli.

Al superpoliziotto fu anche contestato di aver suggerito allo stesso collaboratore di giustizia la strategia processuale da tenere dopo l’arresto. Nel dicembre del 2011 i pm, con il rinvio a giudizio di Vittorio Pisani, ottennero un primo apparente successo. A nulla, ai loro occhi, valse la versione di Pisani, il quale nel corso del dibattimento spiegò che del riciclaggio di denaro messo in atto da Iorio non ne sapeva nulla; che i suoi contatti con Lo Russo erano improntati al normale rapporto tra poliziotto e confidente; che le indagini sul conto del boss non subirono mai un rallentamento, tanto che, disse Pisani, «tutti gli uffici di polizia giudiziaria di Napoli, messi insieme, hanno fatto sul clan Lo Russo meno di quello che ha fatto la squadra mobile in termini qualitativi e quantitativi».

Ma i magistrati, poggiandosi sulle parole del pentito, in primo grado chiesero quattro anni di galera e l’interdizione per cinque anni dai pubblici uffici.

Nel dicembre del 2013, però, il tribunale di Napoli respinse le loro richieste e assolse l’ormai ex capo della squadra mobile, nel frattempo passato allo Sco e poi all’Ufficio immigrazione. E nelle motivazioni di quella prima sentenza l’intera architettura dell’inchiesta fu rasa al suolo. Il giudice, infatti, scrisse che quel procedimento «ha finito per trasformarsi in un processo alla sua carriera, alla sua moralità, in altre parole alla sua stessa persona e di riflesso all’importante ufficio cui era preposto (…), all’intero percorso lavorativo dell’alto funzionario, alle sue metodiche e scelte operative, alla sua gestione dei rapporti personali, professionali e non».

Nero su bianco il tribunale annotò che Lo Russo, su cui i pm «appuntarono in dibattimento massimamente la propria attenzione», in realtà «nulla di veramente rilevante ha in definitiva riferito a carico del funzionario». In quella sentenza si può anche apprendere l’«inconsistenza delle propalazioni del collaboratore», disintegrate, tra l’altro, da «copiose produzioni documentali e lunghi e ponderosi esami di molti testi a discarico, compresi numerosi funzionari di Pg e tre magistrati della Dda di Napoli (…) a sostegno della correttezza dell’operato dell’ex capo della squadra mobile con riferimento sia alla costante messa a conoscenza dei vertici istituzionali delle notizie via via fornitegli da Lo Russo, che con riferimento alla indagini sul clan Lo Russo».

Nonostante tutto, la procura di Napoli ha presentato ricorso, ancora convinta che Pisani fosse a conoscenza del riciclaggio e della provenienza illecita dei capitali, e sulla base di ciò ha chiesto la condanna a due anni di reclusione.

Ma anche stavolta il giudice, dopo aver emesso una sentenza di condanna per i due imprenditori, ha assolto il superpoliziotto. Appresa la notizia, l’ex parlamentare di Forza Italia, Amedeo Laboccetta, ha affermato che «non poteva che concludersi così il travaglio professionale ed esistenziale di uno dei migliori poliziotti italiani a cui lo Stato deve restituire onore e carriera».

All’inizio di ottobre 2017, la Corte d’Appello di Napoli ha condannato a tre anni e sei mesi Salvatore Lo Russo, ex boss del clan dei “Capitoni” di Miano e oggi collaboratore di giustizia. L’accusa è di aver calunniato Vittorio Pisani. La sentenza dei giudici di secondo grado partenopei conferma quanto era già stato deciso in primo grado dal tribunale di Benevento un anno e mezzo prima: Lo Russo calunniò Vittorio Pisani affermando di avergli versato del denaro in cambio di una sorta di “protezione” per la cosca di Miano da lui capeggiata.

 

(fonte: Il Tempo, Il Mattino)

Ultimo aggiornamento: 4 ottobre 2017

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