Taormina: “Troppi poteri al Pm”

L’attuale codice di procedura penale è più sensibile al problema dell’errore giudiziario. C’è stata una profonda e radicale innovazione dell’istituto della revisione dei giudicati, in precedenza legato a un controllo preliminare della corte di cassazione, alla quale spettava di stabilire se dovesse o meno essere riaperto un processo. Questa situazione rappresentava la conseguenza di una concezione molto forte e molto formale del giudicato, che invece risulta oggi abbastanza superata. La revisione è diventata un istituto non più gestito dalla corte di cassazione, ma dalle corti d’appello – quindi da un giudice di merito – alle quali spetta di valutare la sussistenza dei presupposti. Ma anche dal punto di vista di tali requisiti, nonostante l’intelaiatura dei cosiddetti motivi di revisione sia rimasta inalterata, non si considerano nuovi soltanto quegli elementi di prova sopravvenuti e quindi realmente nuovi, ma anche quegli elementi che fanno prevedere uno sviluppo in chiave di emersione di una prova nuova attraverso il prcedimento di revisione. Nel vecchio sistema occorreva aver individuato un testimone, effettuato una perizia o trovato il corpo del reato, per potere adire la corte di cassazione e sperare nella ammissione alla procedura di revisione. Oggi, invece, è sufficiente anche una situazione in embrione rispetto alla prova in senso stretto, purché la corte d’appello sia in grado di fare una diagnosi in base alla quale ritiene che una nuova istruttoria – condotta dalla stessa corte d’appello – possa far pervenire alla raccolta di una prova nuova.
Rispetto al passato, dunque, il nuovo codice di procedura penale configura anche per questo aspetto uno scenario completamente diverso.

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Carlo Taormina
L’avvocato Carlo Taormina.

Per quanto riguarda la suscettibilità del nuovo sistema al verificarsi degli errori giudiziari, ritengo che si tratti di un pericolo effettivamente esistente. Questo è dovuto alla convergenza di varie ragioni: la principale è di certo ricollegabile all’esasperazione del fenomeno della trattazione separata dei processi. Ma c’è anche il modo in cui sono disciplinate le attività dell’indagine preliminare, dove è praticamente impossibile controllare le competenze del pubblico ministero (competenze per materia, territorio o per connessione, e non certo professionali).
Nonostante la legge preveda tutta una serie di criteri per l’attribuzione dei processi, proprio per favorirne la trattazione congiunta, oggi assistiamo a una polverizzazione incontrollabile degli stessi. Un imputato che ha commesso dieci reati in un unico contesto può essere assoggettato – senza che nessuno possa dire una parola – a dieci distinti procedimenti penali, che possono svolgersi nella stessa sede giudiziaria, ma che spesso finiscono per venire disseminati in tutto il territorio nazionale. Una circostanza che, soprattutto per i fenomeni di criminalità organizzata – con riferimento sia al reato associativo che ai reati fine dell’associazione per delinquere – è di comunissima verificazione. Tutto ciò comporta che in base alla regola tot capita tot sententiae, accade assai di frequente che vi sia una divaricazione tra le decisioni giudiziarie. A quel punto, una delle due non può non essere frutto di errore, specie quando si tratta di situazioni in cui non v’è soltanto contestualità – perché la contestualità potrebbe determinare la conseguenza che per un reato c’è responsabilità e per un altro reato no – ma addirittura concorso formale (una condotta unica che sboccia poi in una pluralità di reati).
Il fenomeno della polverizzazione dei processi è un elemento che contribuisce molto all’errore. Certo, però, non bisogna spingere troppo sull’acceleratore nel senso opposto, perché anche un’eccessiva cumulazione costituisce un rischio, contraddicendo l’esigenza dell’accertamento della verità: in questo caso, l’indagine giudiziaria si farebbe troppo complessa per poter essere irregimentata. L’attuale codice prevede che situazioni processuali troppo complesse possano trovare un’unificazione, ma solo ai fini del trattamento sanzionatorio, in sede di esecuzione della pena, senza più toccare cioè il merito della questione. E la situazione si è fatta oggi particolarmente caotica.

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Carlo Taormina
Carlo Taormina.

In passato la causa fondamentale dell’errore giudiziario era l’emarginazione delle parti del processo penale. I soggetti erano cioè estraneati dalla formazione e soprattutto dall’introduzione dei temi di prova. In quelle condizioni, la pista da seguire o il filone istruttorio da coltivare costituivano una prerogativa esclusiva del giudice o del pubblico ministero: una situazione pericolosissima, perché veniva a mancare totalmente il confronto. Anche quando si arrivava in sede dibattimentale – dove ormai tutto era fatto – il confronto non era possibile in termini tecnicamente qualificati perché la parte che avesse chiesto un determinato mezzo di prova per poter dimostrare il contrario o comunque per poter mettere in discussione il risultato dell’istruttoria, si trovava di fronte a un mero esercizio di facoltà, un semplice ius postulandi, a cui non corrispondeva un dovere del giudice, ma un amplissimo potere discrezionale nell’ammissione di queste prove.Questa causa primaria di errore giudiziario era paradossalmente attenuata dalla durata del processo, che molto spesso era caratterizzato da accertamenti ulteriori e approfondimenti di ogni tipo. L’errore, di conseguenza, diventava non particolarmente frequente.

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Non c’è dubbio che nel sistema attuale esistano altri fattori capaci di esporre l’ordinamento giuridico al pericolo dell’errore. Anzitutto, il condizionamento che subisce la giurisdizione sia nell’indagine preliminare sia nel dibattimento. Mi riferisco al processo di primo grado, perché oggi quello di secondo grado rappresenta un fatto meramente formale, dal quale non emerge mai nulla di nuovo dal punto di vista dell’accertamento penale. È un condizionamento che di solito viene reso in termini di appiattimento del giudice delle indagini preliminari sul pubblico ministero, ma che in realtà riguarda anche il giudice della fase dibattimentale. Nel sistema accusatorio – che si ispira al processo di parti, nel quale la giurisdizione è necessariamente condizionata – il condizionamento del giudice dev’essere reale, deve cioè riguardare entrambe le parti, rispetto a una possibilità che esse abbiano di confrontarsi attraverso un reale contraddittorio. Tenendo conto di questo presupposto, sorgono a questo punto due problemi.Analizziamo anzitutto il primo: questo confronto durante le indagini preliminari oggi non esiste. E non si tratta di un problema di parità delle armi, alla quale, peraltro, personalmente credo solo fino a un certo punto. Il problema, in realtà, è nella condizione isolata in cui il pubblico ministero si trova ad operare nel corso delle indagini preliminari. Il pm è isolato non soltanto rispetto all’indagato, ma anche da qualunque altra componente processuale, compresa la giurisdizione. Per cui noi assistiamo a questo fenomeno di un organo al quale compete la funzione di accusa, e prima di tutto di indagine, che agisce incontrollato e incontrollabile. Consegnando per giunta al processo dei dati che, proprio perché incontrollati, comportano un forte pericolo per la regolarità dello stesso.
Nel corso delle indagini preliminari, per effetto di questa condizione del pubblico ministero, si verifica una serie di errori giudiziari che incidono sotto due punti di vista: in primo luogo, sull’impostazione dell’accusa e quindi sulla possibilità che legittimamente venga accusato un cittadino; in secondo luogo, sulle conseguenze interinali delle indagini preliminari, a cominciare ovviamente dai provvedimenti custodiali, cioè dalle misure cautelari.

Carlo TaorminaIn un periodo come quello attuale, caratterizzato da un forte interessamento degli organi di informazione per le vicende processuali, il dibattimento perde ogni importanza: tutta l’attenzione è spostata sulle informazioni di garanzia e sugli ordini di custodia cautelare. Oggi il processo si celebra sostanzialmente soltanto attraverso questi momenti interinali.

Quando si propone che al termine delle indagini preliminari si facciano patteggiamenti più o meno allargati, giudizi abbreviati più o meno ampliati, calibrando magari la celebrazione di questi procedimenti sugli atteggiamenti più o meno confessori o delatori degli indagati, non si tende ad altro se non a schiacciare il processo all’interno della fase delle indagini preliminari. In modo tale che quell’indagine isolata, incontrollata e incontrollabile, condotta dal pubblico ministero, abbia ad avere la meglio.È chiaro quindi che l’esposizione all’errore giudiziario, nel sistema attuale, è continua e il rischio è altissimo. Non è dunque una pretesa corporativa degli avvocati, quella che si avanza quando si dice che nel corso delle indagini preliminari questi pericoli si possono ovviare se si mette l’indagato nelle condizioni di dire la sua. Posso dire, per esperienza professionale quotidiana, che l’80 per cento dei provvedimenti cautelari che si adottano nel corso delle indagini preliminari, sono certamente ovviabili con una possibilità di partecipazione dell’indagato al processo. Molto spesso, basta un semplice interrogatorio dell’indagato per chiarire le cose. Una mera interlocuzione è sufficiente a evitare l’errore. Il nostro sistema processuale dovrebbe adeguarsi a una norma che peraltro già prevede e che affida all’indagato e al suo difensore la possibilità di interlocuzione, anche attraverso la produzione di elementi di prova che darebbero certamente il modo di facilitare l’accertamento della verità.Tutto questo per dire che parlare di giurisdizione come garanzia nelle indagini preliminari, è un’ipocrisia: il Gip non può essere un garanzia, salvo che non faccia le fatiche di Ercole o che non si assuma le responsabilità in prima persona. Esiste insomma solo il pm: questi, quando richiede un provvedimento cautelare, sottopone al Gip soltanto le carte che gli fanno comodo e non tutto quello che ha effettivamente acquisito. Si sono verificati casi in cui sono state prodotte le prove di innocenza di un indagato e non sono state trasmesse al giudice delle indagini preliminari, quando non addirittura al Tribunale della Libertà. Ecco perché affermo che il condizionamento sta bene, perché è l’essenza del processo accusatorio, ma in quanto appunto le convergenze di contribuzione probatoria si verifichino da tutte quante le parti, compresa la persona offesa dal reato.

Questo stato di cose crea rischi enormi all’interno delle indagini preliminari. Si assiste di continuo, da parte dei giudici, alla contestazione sistematica di fatti di corruzione e concussione rispetto a situazioni in cui non è possibile identificare gli elementi tipici che configurano quelle fattispecie di reato: vale a dire comportamenti costrittivi o induttivi del pubblico ufficiale, o atti contrari ai doveri dell’ufficio. È bastato che un indagato dicesse: “Per fare come volevo, quel pubblico ufficiale mi ha chiesto la somma di lire tot” per far scattare l’accusa di concussione. Non dico che non sia un reato, ma una semplice richiesta non può confondersi con una costrizione o un’induzione. Ebbene, il 90 per cento dei processi di Tangentopoli, a proposito di atti dei pubblici ufficiali, riguardano tutti appalti o trattative private assolutamente legittimi. Mancando l’illegittimità dell’atto, viene meno la corruzione per atto contrario ai doveri dell’ufficio. Restano solo gli estremi dell’unico vero reato contestabile dai giudici: la violazione della legge sul finanziamento dei partiti, che nella stragrande maggioranza dei casi nessun magistrato ha mai ritenuto di contestare. Un illecito finanziamento dei partiti passa attraverso comportamenti spontanei degli imprenditori, che escludono quindi la concussione; non è inoltre un atto contrario ai doveri dell’ufficio, perché le trattative private per gli appalti venivano fatte secondo accordi di turnazione negli anni tra le singole imprese. Questa è la verità di fondo: non si è riusciti a ottenere per questo settore la contestazione giusta, perché il pubblico ministero manda avanti le sue accuse secondo i criteri che ho spiegato, quindi creando forzature, facendo un uso quasi intimidatorio dei provvedimenti di custodia cautelare e via dicendo.

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Carlo Taormina
L’avvocato Carlo Taormina durante un’udienza.

Se tutte queste storture del sistema trovassero il modo di riequilibrarsi in sede dibattimentale, il problema non sarebbe poi di particolare gravità. Ma questo purtroppo non accade, perché rispetto all’originaria concezione del nuovo codice, la disciplina del dibattimento ha subìto alcune modifiche che hanno eroso in molta parte il sistema originario, che comunque già presentava delle notevoli falle. Durante il dibattimento si realizza una situazione anomala: il pm, che nelle indagini preliminari è stato in una posizione preponderante per quanto riguarda la raccolta degli elementi, sarà maggiormente in grado, rispetto alla difesa, di poter esercitare il diritto alla prova. Purtroppo, poi, moltissimi degli atti di indagine preliminare – che secondo il codice nascono come inutilizzabili ai fini della formazione del convincimento del giudice – con vari marchingegni (dalle contestazioni alle letture) rientrano fatalmente nel dibattimento e lo vanno a condizionare, coiscché il dibattimento stesso torna ad essere un simulacro così come lo è stato quello nel vecchio processo. Per questo tramite, il condizionamento della giurisdizione continua, fino a riflettersi nella sentenza. Oggi più di ieri, a mio avviso, il sistema è maggiormente esposto al rischio dell’errore di valutazione all’interno del processo.

In sostanza, si può affermare che la filosofia del processo accusatorio – che nasce con caratteristiche tali da scongiurare il rischio di errore – viene oggi contraddetta. L’efficacia del modello accusatorio è infatti legata, anche sotto il profilo dell’esposizione all’errore, ad alcuni passaggi ineludibili. Nel momento in cui anche uno solo di questi passaggi non viene rispettato, il modello accusatorio – diversamente da quanto accade a quello inquisitorio – salta nella sua totalità. Il sistema inquisitorio è più elastico, più tollerante: tollera addirittura il dibattimento, che è un anacronismo rispetto al processo inquisitorio. I processi misti, che hanno fatto la parte del leone nell’evoluzione storica del processo penale italiano, nascono appunto da questa grande malleabilità del rito inquisitorio.

Il modello accusatorio, invece, presenta caratteristiche differenti: se non è condotto in un certo modo, fallisce. Una circostanza che i nostri legislatori conoscono bene, così come la Corte Costituzionale. Quest’ultima ha la principale responsabilità del degrado del sistema processuale odierno. Al momento della sua nascita, nel 1989, il nuovo codice aveva sostanzialmente trovato dei punti di equilibrio, nonostante il condizionamento della legge delega. L’impianto originario è stato attraversato da alcuni interventi della Corte Costituzionale: ad esempio, con il “decreto Martelli” (n.306/’92), poi convertito in legge quasi integralmente, si è completamente vanificata l’importanza del contraddittorio dibattimentale ai fini dell’acquisizione della prova. Rimpolpando in maniera incredibile le possibilità di riciclaggio degli atti delle indagini preliminari attraverso contestazioni e letture, praticamente si è persa la spinta a celebrare il dibattimento perché per effetto di questo travaso non ne esiste più la ragione.

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Carlo Taormina
Carlo Taormina.

La disciplina relativa ai cosiddetti collaboratori di giustizia costituisce un’altra grandissima fonte di pericolo di errore. Quello dei pentiti è un settore assolutamente ingovernabile. Tutto proviene da un problema fondamentale: la premialità, un istituto conosciuto anche dagli ordinamenti anglosassoni, ma in termini ben più seri di quanto accade in Italia. Nel caso di un collaborante americano, ad esempio, si stipula un accordo (agreement) in virtù del quale il processo a suo carico è sospeso fino a quando non si sono avuti i risultati delle sue dichiarazioni e solo se queste si sono rivelate efficaci. In una recente proposta legislativa a cui mi è stato chiesto di lavorare, ho esposto una mia soluzione del problema: nessun vantaggio ai pentiti, sul piano del trattamento giudiziario, ma anzi un regolare procedimento penale nei loro confronti, per quanto riguarda i reati che essi hanno commesso. Il giudice, in questo caso, emetterà una sentenza che prevede un minimo e un massimo di pena: ma la decisione relativa verrà presa soltanto dopo che la sua sentenza è passata in giudicato.
Quello relativo ai pentiti è un argomento delicato anche per quanto concerne il loro trattamento, sia da parte degli organi di polizia sia da parte dell’autorità giudiziaria.

È davvero un settore incredibile, con una giurisprudenza che si è formata in un periodo storico in cui non esisteva la regola probatoria per cui in tanto può essere utilizzata la chiamata in correità in quanto vi sia da una parte una coerenza interna della chiamata stessa e dall’altra parte un riscontro esterno. Una giurisprudenza, insomma, che si era venuta a creare sotto il processo inquisitorio e che oggi mostra la corda. Ancora oggi si discute, ad esempio, delle cosiddette dichiarazioni de relato, vale a dire quelle in cui si afferma di non conoscere direttamente l’evento, ma di esserselo fatto raccontare da altri: un qualcosa che non dovrebbe esistere, nel processo accusatorio.

Carlo Taormina

(da Cento volte ingiustizia, di Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, Mursia 1996)

 

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