Santiapichi: “Il caso Gallo non è servito a nulla”

La presa di coscienza della fallibilità del giudice ha in sé l’ovvia conseguenza di un monito, un invito alla cautela e alla scrupolosa osservanza delle regole, soprattutto di quelle che tentano di sbarrare l’ingresso all’errore. Ma, nel parere di John Huizinga, proprio la raggiunta consapevolezza della possibilità dell’errore giudiziario sarebbe una, epperò la non meno rilevante, delle cause che hanno reso “timido e oscillante”, almeno nel nostro tempo, il concetto di giustizia.

Nella ferma opinione dello storico olandese, la fallibilità del giudizio del giudice avrebbe determinato una sorta di “cattiva coscienza”, “esitanze” e ripulse nell’infliggere o, comunque, nel mantenere, la “piena misura di una pena crudele”. Allevieremo, dunque, il peso della mela cotogna sul cuore sacrificando, addolcendo le pene, umanizzandole anche.

Severino Santiapichi
Il giudice Santiapichi durante il processo ad Alì Agca.

Ci sono, però, diverse e fondate ragioni per credere che queste “esitanze” non siano, poi, un fenomeno molto diffuso se persino la pena capitale, a dispetto dell’accertata sua inutilità come deterrente, dà luogo ad un culto professato da molti e se strumenti che parevano sepolti da cumuli di ignominiose macerie, come la palla al piede dei detenuti, sono stati reintrodotti.

Pare allora che il “purché il reo non si salvi, il giusto pera e l’innocente…” sia come un prezzo da pagare alla sete della pena nella sua “piena” misura, senza che la costante presenza del pericolo dell’errore giudiziario abbia oramai, dal punto di vista dei “benpensanti”, la possiblità operativa di un freno.

C’è, quindi, da temere che, da questa angolazione, poco sia mutato dal tempo in cui Lailler e Vonoven (“Les erreures judiciaires et leurs causes”, Parigi, 1897) additarono nella gestione del procedimento probatorio – dal momento acquisitivo a quello valutativo – il luogo del tarlo e da quando Giuseppe Sotgiu (“L’errore giudiziario e altri scritti“, Roma, 1965), richiamando Traiano, insisteva sull’assoluta prevalenza da dare al principio “in dubio pro reo”. In teoria, ogni sistema ha in sé sbarramenti che possono, se adeguatamente rispettati, preservare la società (ma anche il giudice – perché questo il rimorso per lo sbaglio se lo porta dentro per sempre) dai gravi guasti dell’errore giudiziario e sono sbarramenti dentro il processo e, a cose fatte, interventi per dare un sollievo a chi ha subìto le conseguenze della pronuncia o di un provvedimento che lo ha colpito danneggiandolo. Di recente, un noto giurista, Adrian A.S. Zuckerman, discutendo sulle possibilità d’intervenire radicalmente sul processo penale inglese al fine di liberarlo dall’errore giudiziario, ha rilevato che “per quanto le procedure relative alla fase predibattimentale e a quella dibattimentale possano essere imperfette, non è lì che giace la fonte dei guai. Le radici dell’errore giudiziario vanno indicate nelle indagini di polizia. Sono le errate conclusioni della polizia a condurre all’esercizio dell’azione penale e a ingiustificate condanne. Si può tentare, come è stato fatto in passato, di armare i prosecutors e i giudici di migliori procedure al fine di scoprire gli errori della polizia; tuttavia, l’esperienza passata suggerisce che è improbabile che un simile approccio indiretto renda il sistema dibattimentale sensibilmente più idoneo ad opporsi agli errori…” (il saggio in questione è apparso in Italia su “Il giusto processo“, ottobre-dicembre 1992, pagg. 297 e ss.).

Severino Santiapichi
Il giudice Santiapichi.

Se dovessimo seguire questa indicazione dovremmo correggere, anzitutto, il riferimento alla polizia sostituendolo con gli uffici del pubblico ministero e, dunque, ribaltando su questi ultimi i risultati dell’indagine di H. Packer (“The limits of the criminal sanction“, 1968) sulla “presunzione di colpevolezza che deriverebbe, in termini pratici, dalla fiducia nella credibilità delle preliminari indagini: “Se vi è fiducia nella credibilità dell’attività amministrativa (qui il riferimento alla natura giuridica di questa attività è al common law, nda) di accertamento informale del fatto che si svolge nelle prime fasi del processo penale, le restanti fasi del processo possono essere relativamente trascurate, senza alcuna perdita ai fini dell’efficacia operativa. La presunzione di colpevolezza è l’espressione effettiva di questa fiducia”.

A tal proposito, nel rilievo di Zuckerman, anzi, “…la stretta cooperazione tra polizia e pubblico ministero porrà probabilmente la prima in grado di fornire un input maggiore di quanto sia formalmente ammesso”.

Non so se sia possibile adottare da noi il modello di una o più “reinvestigazioni” (al di fuori, ovviamente, del predibattimento e del dibattimento), ma non è che, poi, in effetti, quella sorta di “reinvestgazione” che era il lavoro del vecchio giudice istruttore si sia rivelata un toccasana. Meglio, forse e tutto sommato, un ritorno ai principi e l’assillante insistenza della validità dell’in dubio pro reo oltreché della grande cautela nel dare ingresso alle prove e soprattutto nel valutarle.

Questa ricerca su casi di errori giudiziari, venendo al tema delle ragioni di questo scritto, ha il merito di riproporre, nella sua consistenza reale, cioè, nel suo non irrilevante spessore, il problema dell’errore giudiziario. E c’è, anzitutto, un fatto notevole costituito dalla presa di coscienza che danni non rimediabili possono derivare anche prima di una sentenza di condanna e persino ancor prima che ci sia l’intervento del giudice.

Severino Santiapichi
Il giudice Severino Santiapichi.

Una persona, come in alcuni dei casi presentati in questa ricerca, può essere gravemente lesa da un avvio di un processo nei suoi confronti, magari un inizio non controllato quanto meno dal punto di vista delle possibili omonimie. Mancanza di attenzioni “dovute” che generano conseguenze alle quali è difficile porre un adeguato riparo. Difetto del magistrato, ma anche di altri. Probabilmente, da questo punto di vista, ristori più consistenti di danni potrebbero contribuire ad aguzzare lo scrupolo ed anche la vista.

C’è un caso tra tutti quelli presentati in questa raccolta ed è il noto processo Gallo che, sceverato a fondo, potrebbe dare una mano di aiuto nel cercare alcune radici dell’errore giudiziario ma che si presta ad un rilievo rivolto al nuovo codice. Se si dovesse ripresentare un caso Gallo, le cose, quanto ad “esitanze” sul riconoscimento dell’assoluta inconciliabilità di due fatti contraddittori: da un lato, lo stare in vita del supposto morto e, dall’altro, la responsabilità per omicidio, sarebbero al punto di prima perché proprio l’esperienza di questo caso specifico è stata trascurata.

Severino Santiapichi

(da Cento volte ingiustizia, di Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, Mursia 1996)

 

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