Sono 56 anni che lo Stato è in guerra con Luciano Rapotez. E 56 anni che il vecchio non molla. Luciano Rapotez è innocente, ha passato la novantina, è pieno di acciacchi, ma non molla: vuole che qualcuno gli chieda scusa per i tre anni di galera e le sevizie che ha subito. Per ricordare a tutti che l’Italia, come torna a denunciare in questi giorni Amnesty International, non ha ancora riconosciuto (che vergogna!) il reato di tortura.
Tutto cominciò a Trieste una sera nel gennaio 1955. Quando Rapotez fu fermato sotto casa da poliziotti assai maneschi che dopo avergli piantato una pistola nelle costole e tentato il trucco della «ley de fuga» («Scappa, mi dicevano, scappa! Ma mi avrebbero abbattuto dopo due passi») lo trascinarono in questura accusandolo di un delitto orrendo. Una lontana rapina avvenuta nel 1946 in una villa sul Carso, dove erano stati assassinati un orefice, la fidanzata e la domestica. Lui negò, disperatamente. Ma in quegli anni di tensione e di odio, era il «colpevole» ideale. Ex partigiano. Comunista. Un cognome che pareva slavo. Doveva assolutamente confessare. E come avrebbero riconosciuto più sentenze, venne massacrato: cinque giorni e quattro notti di pestaggi, senza acqua, senza cibo, senza poter chiudere un occhio perché sbattuto sotto lampade incandescenti. E poi le scariche elettriche ai genitali, i pestaggi, la messa in scena di un finto suicidio. Confessò. «Ero annientato. Avrei ammesso anche d’aver ucciso Giulio Cesare».
Restò in galera quasi tre anni. Finché, finalmente, arrivò il processo. E fu assolto. Insufficienza di prove. Altri tre anni di calvario, ed ecco, anche grazie a tre testimonianze che lo scagionavano, l’assoluzione piena. Col riconoscimento del «trattamento violento», delle «sevizie», delle «confessioni estorte».
Uscì dal carcere e cercò con gli occhi la moglie. Non c’era: «Erano anni durissimi, credeva che io fossi un assassino, doveva tirar su i bambini. Aveva trovato un altro. Oggi la capisco. Allora fu durissima». Aspettò la conferma della sua innocenza in Cassazione e poi, schifato, emigrò in Germania. E ci restò vent’ anni. Durante i quali cominciò a scrivere a tutti: presidenti della Repubblica, capi di governo, ministri della giustizia e degli interni… Voleva quello che oggi viene concesso a tante vittime della cattiva giustizia: un modesto risarcimento e una parola: «Signor Rapotez, scusi». Risposte? Rare. E quelle rare sulla falsariga di quella dell’allora ministro della giustizia Paolo Francesco Bonifacio: «Risulta evidente che la domanda di riparazione dei danni conseguiti alla carcerazione preventiva sia assolutamente priva di fondamento allo stato della vigente legislazione».
E quando finalmente la legge che prevedeva un indennizzo alle vittime dei più macroscopici errori giudiziari venne approvata, nel 1979, il suo ricorso venne respinto: troppo tardi, le torture sono ormai in prescrizione. Una beffa. Un altro avrebbe maledetto tutti e si sarebbe messo l’animo in pace. Lui no. E grazie anche al libro-denuncia di Giorgio Medail e Alberto Bertuzzi «Il caso Rapotez» e all’aiuto di avvocati appassionati come il milanese Stefano Taurini («è una storia così mostruosa che gli abbiamo sempre fatto pagare solo le marche da bollo») ha tenuto duro facendo ricorsi su ricorsi fino a farsi riconoscere per due volte dalla Cassazione che aveva ragione lui. Tutto inutile. Al momento finale c’era sempre un magistrato che riportava il birillo indietro come nel gioco dell’oca: tornate alla casella di partenza senza passare per il via. Verdetti incredibili. Come quello in cui si legge: «Quand’anche fosse provata la commissione (della tortura) da parte dei funzionari di polizia, di quegli atti che avrebbero causato i lamentati danni, tali atti non avrebbero potuto imputarsi alla pubblica amministrazione perché non rivolti ai fini istituzionali di uno Stato democratico, sibbene ai fini personali ed egoistici di chi li pose in essere». Finché un giudice arrivò a scrivere che sì, certo, la prescrizione per il risarcimento era stata interrotta fino al 1979 dal diluvio di lettere spedite a tutti, ma dal 1979? Era caduto tutto in prescrizione di nuovo. Alla fine degli anni ’90, il vecchio aveva contato via via 31 passaggi giudiziari e 42 giudici coinvolti. Poi smise di contarli.
Nel 2005, la fine di tutto. Il ritardo nel deposito dell’ennesimo verdetto e l’ennesimo pasticcio burocratico chiuse le porte anche all’ultimo ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Da allora, il vecchio Luciano si è dato un obiettivo ulteriore. Fare alla giustizia italiana un dispetto quotidiano: rimanere vivo. Per ricordare alle coscienze di questo Paese l’immensa ingiustizia subita. La regista Sabrina Benussi gli ha dedicato un film che sta girando in Italia. Dove con l’aiuto dell’attore e regista Moni Ovadia, del giudice (in pensione) Gherardo Colombo e dello storico Marcello Flores ha ricostruito l’agonia giudiziaria di Rapotez. Che nonostante tutto, cocciutamente, a 92 anni, continua a impugnare la Costituzione italiana: «È tutto qui dentro! Tutto qui dentro!» Al risarcimento ha rinunciato. A una sentenza che gli dia ciò cui ha diritto, cioè una riparazione della magistratura, anche. Gli basterebbe una parola, e oggi potrebbe dirla solo Giorgio Napolitano: «Signor Rapotez, ci dispiace». Più ancora, però, vorrebbe vedere finalmente il riconoscimento del reato di tortura. Sul quale il Parlamento è latitante da anni. Proprio in questi giorni il cinquantesimo rapporto annuale di Amnesty International ricorda che «se l’Italia avesse introdotto il reato di tortura nel suo codice penale» ai poliziotti condannati anche in appello per le sevizie alla caserma Bolzaneto «la prescrizione non avrebbe potuto essere applicata». «Se una sola tortura di meno si darà in grazia dell’ orrore che pongo sotto gli occhi, sarà ben impiegato il doloroso sentimento che provo, e la speranza di ottenerlo mi ricompensa», scriveva Pietro Verri nel 1777, dodici anni prima della Rivoluzione Francese, nelle sue «Osservazioni sulla tortura». Sono passati 234 anni.
(fonte: Gian Antonio Stella, Corriere della sera, 4 giugno 2011)