C’è qualcosa di peggio, in tema di cattiva giustizia, della protervia di certi magistrati: il giornalismo dei plotoni di esecuzione mediatico-giudiziaria sono quasi peggio. Perché è difficile fare appello, quando il giudice pregiudica senza voler sapere più niente della verità. Nei giornali, la notte è buia. Hai voglia a dire che va usata cautela, verifica, dubbio e non puntare ogni giorno a fare un nuovo romanzo criminale. La Condanna mediatica (Licosia editore, disponibile su Amazon) prova a mettere ordine. L’intreccio tra bene e male, potere e corruzione, ambizione e denaro sono la miscela ideale per una narrazione di successo. E perché una storia con questi ingredienti stia in piedi, è necessario che poggi su un colpevole. Su un nemico pubblico. Perché “il Mostro” piace, tira sempre. Il colpevole, il reo, l’imputato (e spesso anche il semplice indagato) è la figura di riferimento dello storytelling. E quando non c’è un colpevole vero, bisogna trovarne uno verosimile. Far ballare un’ombra, far tremare il lettore, quando non di paura, almeno di rabbia. Di sospinta, forzata indignazione. Serve dunque un sospettato sul quale gettare fango, magari sperando che qualcosa di illecito l’abbia commesso davvero. Un perfido Dreyfus sul quale infierire. Aver visto condannare Enzo Tortora non ha ancora insegnato niente. Il popolare conduttore televisivo venne messo nel tritacarne dell’informazione senza che nessuno si preoccupasse di appurare la verità. I giudici che lo condannarono, da innocente, hanno fatto carriera. I giornalisti che titolarono addossandogli ogni mostruosità, ancor di più.
La gogna mediatica
La condanna mediatica, la gogna mediatica, arriva prima e va sempre oltre quella giudiziaria. Il “tribunale della stampa”, per non parlare di quello della rete, giudica con sentenza inappellabile e definitiva il Colpevole (che poi spesso si rivela innocente). Il sospettato diventa indiziato, e molto prima che vi sia una sentenza definitiva ecco che la campagna di demolizione della reputazione parte con le armi affilatissime dello shitstorming. Il malcapitato non riuscirà – se non dopo mille peripezie – a scrollarsi il fango di dosso. Mentre si cerca di declinare in legge il principio della presunzione di innocenza, tra le proteste del sindacato dei giornalisti, la crisi di vendite dell’editoria tramuta lo strumento di analisi dell’informazione in una lente che deforma la realtà: ogni giorno esige un suo mostro in prima pagina, un caso criminale che faccia moltiplicare i clic. L’innocenza non rileva. Interessa poco. Come le buone notizie, che non a caso nei film arrivano per ultime.
In questo volume, curato dal giornalista Aldo Torchiaro del quotidiano Il Riformista, si occupano della questione quattro interlocutori che affrontano il prisma della character assassination secondo angolature e competenze diverse. Si confrontano l’avvocato Giorgio Varano, dell’Unione delle Camere Penali; la giornalista Valentina Angela Stella, che scrive per Il Riformista e per Il Dubbio; il civilista Salvatore Ferrara, esperto in questioni legate ai reati dell’informazione; il deputato Enrico Costa, già Viceministro della Giustizia nel governo Renzi, “padre” della legge sulla presunzione di innocenza.
Un caso esemplare
Le loro considerazioni fanno da cornice al focus di un caso che secondo Torchiaro rappresenta oggi uno dei più eloquenti, nella sua semplicità: un cittadino incensurato, Antonio Velardo, che viene riconosciuto innocente dai tribunali e contemporaneamente colpevole dalla rete. Un caso rappresentativo della deriva dell’informazione: il giovane imprenditore è entrato e uscito in una inchiesta del Procuratore Gratteri, che lo ha scagionato. Ma rimane nel mirino dei sospetti e viene dipinto nelle inchieste giornalistiche con coloriture gratuite, farcite di stereotipi e di pregiudizi. Ed ecco che il libro diventa un manuale di fact-checking: esamina le accuse contro Velardo e punto per punto, le mette a confronto con la realtà. Operando quell’attività di debunking che dovrebbe diventare il primo dovere di ogni vero giornalista.
Come intervenire
In La condanna mediatica, l’avvocato Giorgio Varano lancia una serie di stimoli per il legislatore: «Un Garante dei diritti delle persone sottoposte ad indagini e processo sarebbe realmente quel soggetto “terzo” capace di tutelare i diritti di chi viene sottoposto ad un processo mediatico e di chi viene potenzialmente esposto allo stesso da atti della magistratura violativi dei principi declinati dalla direttiva europea e dalle norme nazionali, ma anche da tutta quella serie di “atti extraprocessuali” di cui vengono inondati i media e i social network. Al Garante dovrebbe essere dunque riconosciuta anche la legittimazione attiva nel richiedere al giudice la correzione dei provvedimenti, anche d’ufficio e non solo su segnalazione dell’interessato, e la possibilità di adire in via diretta l’Autorità garante per le comunicazioni, le cui competenze andrebbero ampliate».
Gli errori giudiziari dei giudici sono insopportabilmente gravi, quelli del giornalismo giudicante semplicemente indecenti.