E ora Giuseppe Gulotta chiede un maxi risarcimento: 69 milioni di euro

Aveva trascorso 22 anni in carcere, proclamandosi sempre innocente, prima che – dopo tre sentenze definitive e un lungo processo di revisione – la giustizia gli desse ragione. Oggi Giuseppe Gulotta, il protagonista di una kafkiana vicenda italiana, chiede allo Stato italiano un maxi risarcimento per l’ingiusta detenzione: 69 milioni di euro, il più alto mai richiesto.

Giuseppe Gulotta aveva 19 anni quando venne coinvolto in un’indagine che avrebbe fatto deragliare per sempre i binari della sua tranquilla vita ad Alcamo Marina (Tp). Gulotta venne arrestato in seguito alle indagini sulla morte di due carabinieri, trucidati nella caserma di Alcamo la notte del 27 gennaio 1976. I militari, appena 18enni, vennero derubati delle armi di ordinanza, due Berretta calibro 9.

 

L’ARRESTO. Del fatto si era occupato all’epoca anche il giornalista radiofonico Peppino Impastato, qualche anno dopo trucidato dalla mafia. Secondo Impastato si era trattato di un avvertimento della mafia locale allo Stato. I carabinieri del reparto antiterrorismo di Napoli, incaricati delle indagini, ai primi di febbraio trovarano ad Alcamo a bordo di una Fiat 127 due pistole con la matricola abrasa, una delle quali era una calibro 9 come quelle in dotazione alle vittime. Fu fermato il proprietario dell’auto, il diciannovenne Giuseppe Vesco, che spiegò di aver dovuto consegnare le armi a degli sconosciuti sulla spiaggia di Alcamo. A casa di Vesco fu trovato un trapano, come quello usato per abradare la matricola delle armi e poco dopo il ragazzo confessò la strage dei carabinieri, commessa con la complicità di altri coetanei, inseparabili amici del paese. Tra questi anche Giuseppe Gulotta, arrestato tra il 12 e il 13 febbraio di 37 anni fa; il ragazzo da subito gridò la propria innocenza. Nell’ottobre dello stesso anno, Vesco si suicidò in carcere, ma il processo scaturito dalle indagini proseguì per decenni nel solco delle sue dichiarazioni.

 

LA CONFESSIONE DEL CARABINIERE. Nel 1990 arrivò la condanna definitiva in Cassazione. Gulotta non si è mai arreso in questi anni e dal carcere chiese una prima volta la revisione del processo, e gli venne rigettata, quindi presentò una seconda volta la richiesta in Cassazione: stavolta gli è stata accordata. Decisiva per la riapertura del caso è stata infatti la testimonianza giunta spontaneamente nel frattempo da parte di uno dei carabinieri che avevano condotto le indagini nel 1976. Renato Olino, ex maresciallo dell’Arma, si è presentato pochi anni fa ai magistrati di Trapani ai quali ha raccontato «metodi persuasivi eccessivi» usati all’epoca per far «cantare» Vesco. Olino ha raccontato ai magistrati che il Vesco fu condotto in una caserma, costretto a ingurgitare da un imbuto acqua e sale e subire scosse elettriche tramite un telefono da campo. Fino alla confessione, sulla base della quale era stato condannato Gulotta. Lo scorso febbraio, la corte d’Appello di Reggio Calabria ha accolto la richiesta dello stesos procuratore generale di assolvere da ogni accusa Gulotta. «Spero che ora le famiglie dei due carabinieri trovino giustizia» sono state le prime parole di Gulotta all’uscita dall’aula.

 

«INCALCOLABILE CIO’ CHE MI È STATO TOLTO». Oggi i suoi legali presentano una richiesta danni allo Stato, sulla base di quanto ha spiegato a La Nazione lo stesso Gulotta, che nel frattempo si è sposato e vive in Toscana: «È una cifra molto alta che a stento riesco a pronunciare, ma ciò che mi è stato tolto è incalcolabile. Penso a tutte le occasioni mancate, alle opportunità perdute: all’epoca della condanna definitiva, nel 1990, ero un bravo muratore avevo una ditta individuale ben avviata che fatturava circa 100 milioni di lire all’anno. Nel 1976, invece, prima dell’omicidio dei due carabinieri, avevo fatto domanda per la Guardia di Finanza e c’erano buone possibilità che mi prendessero. Poi mi accusarono e tutto andò in fumo». L’uomo ha perso invece tutto, dal punto di vista materiale: persino i contributi che gli permettano di avere una pensione, così come l’opportunità di reimmettersi nel mondo del lavoro. C’è poi il danno più incalcolabile: quello di aver visto il tempo consumarsi lentamente dietro le sbarre, pur essendo del tutto innocente.

 

(fonte: Chiara Rizzo, Tempi, 22 gennaio 2013)