Spigarelli: "Giudici troppo vicini ai pm. È ora di separare le carriere"

Valerio Spigarelli

«Se fosse lei il difensore di Claudio Scajola si strapperebbe i capelli?», chiedo all’avvocato Valerio Spigarelli, presidente nazionale delle Camere penali e massimo esperto degli umori che serpeggiano tra i penalisti italiani.

Le Camere penali sono 120, nelle maggiori città. Volendo parlare di una cosa avvilente come la giustizia penale in questo Paese, consola avere di fronte uno come Spigarelli. Ha lo sguardo fermo, folti capelli da strappare in caso di necessità e la giusta foga per affrontare il pantano. Covava fin da giovanetto la passione per i diritti dell’imputato. Ora ha 57 anni e un grosso studio nel centro di Roma, la sua città. «Diciassettenne, digiuno di diritto, già manifestavo contro la legge Reale (dura legge antiterrorismo del 1975, ndr)», dice, mentre in cravatta e maniche di camicia cerca di capire con chi ha a che fare prima di rispondere alla domanda su Scajola.

Profitto, per sondarlo anch’io: «La peggiore malagiustizia in cui si è imbattuto?». «Non una, cento», risponde e si capisce che considera il mestiere di difensore un campo minato con una trappola al giorno. Poi, per dire che tipo è Spigarelli, improvvisamente si stufa dei preamboli e sbotta: «Le dico il punto debole della giurisdizione penale e potrei anche finire l’intervista. Tutto discende da lì». «Prego», gli dico incuriosito da questa prodigiosa capacità di sintesi.
«Il sistema giudiziario è squilibrato. Il giudice non è equidistante tra accusa e difesa».

 

Il giudice parteggia?
«È più vicino al pm, per ciò che l’accusa rappresenta: la pretesa punitiva dello Stato; piuttosto che al diritto di libertà dell’imputato».

 

Partito preso?
«Dato culturale. Giudice e pm sono contigui e hanno la stessa formazione. Ecco perché è necessario separare le carriere. I pm si oppongono, sentendosi sminuiti. La separazione serve ad avere un giudice libero, non un pm a metà».

 

Torniamo a Scajola: da difensore tremerebbe?
«Non penso proprio. Poi è ben assistito».

 

Intanto è in galera e non si intravede la fine.
«La magistratura intende la custodia cautelare, non come una cautela per ragioni processuali, ma come un’anticipazione di pena».

 

Maramaldeggiano?
«Temono che l’imputato sfugga alla condanna e presentano subito il conto: pochi, maledetti e subito. Che però è un detto di commercianti».

 

Su Scajola, arrestato per vicinanza a Matacena, ora piovono accuse su accuse. Dal solito concorso esterno, all’inedito «omicidio per omissione» di Marco Biagi…
«Un classico per chi è in carcere. Ricordi accuse e pentiti che si moltiplicarono per l’innocente Enzo Tortora».

 

Vale ancora il detto «male non fare, paura non avere»?
«Realisticamente, no. La legge impone al pm di non portare in giudizio un imputato se non sia convinto che ne otterrà la condanna. Poiché assoluzioni e condanne in uno stesso processo si accavallano, è chiaro che la norma è disattesa».

 

In più, la gogna delle intercettazioni di cui è vittima anche l’incolpevole.
«Pratica da Stato autoritario. Contraria alla legge che le regola e alla sentenza della Consulta che, nel ’74, fissò i casi in cui sono ammesse».

 

Il «reato» di concorso esterno in associazione mafiosa è illegale.
«Invenzione giurisprudenziale, sconosciuta al Codice penale».

 

Ha fondamento questa invenzione per persone come Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri?
«Questo ?reato? è spesso una forzatura: permette di criminalizzare i comportamenti più vari. La contiguità con la mafia può andare da uno a cento e si penalizza uno come cento».

 

Chi è responsabile di tanta illegalità nella Giustizia?
«I politici. Hanno l’enorme colpa di non avere fatto una vera riforma della Giustizia in questi vent’anni, inseguendo invece gli umori della piazza».

 

E le toghe sono dilagate.
«Un magistrato che fa un comizio politico contro il presidente della Repubblica (Ingroia, ndr). Quattro pm che vanno in tv per ammonire il governo a non fare una legge (pool di Milano ai tempi di Mani pulite, ndr). Settanta pm che mandano un fax al Parlamento ingiungendogli di bloccare la riforma della Giustizia (ai tempi della Bicamerale, ndr). Abbastanza per dire che c’è un enorme problema di separazione dei poteri che la politica non affronta».

 

Il Guardasigilli, Orlando, è all’altezza?
«Di buono ha che è un politico. Loro, prima o poi, capiscono. Se alla Giustizia mettiamo un giurista, è peggio. Il problema è quello manzoniano (Il coraggio, uno non se lo può dare, ndr).

 

Il Parlamento autorizza addirittura il carcere preventivo dei suoi, come con Genovese del Pd.
«Che quattro giorni dopo era ai domiciliari perché il giudice non ha ritenuto necessario il carcere. Che penseranno di sé i parlamentari che ce lo hanno spedito?».

 

Per dire il Paese: la sera delle manette, Crozza in tv ha fatto il pirla su Genovese (e mesi prima su Cosentino).
«Facile fare dello spirito sulla pelle degli altri. Ma se tocca a noi, cambiamo registro. Mai visto nessuno con tanta sfiducia nei giudici, quanto i magistrati che incappano nelle attenzioni dei colleghi».

 

Il carcere duro si concilia con lo Stato di diritto?
«Il 41 bis è una tortura democratica. Un trattamento disumano vietato dalla Costituzione».

 

La trattativa Stato-mafia, cara alla Procura di Palermo, attiene alla sfera giudiziaria o politica?
«Il reato di trattativa non esiste. Ci sono arrivati anche antimafiosi doc, come Marcelle Padovani, biografa di Falcone, e Giovanni Fiandaca, studioso pd del fenomeno. Pur di evitare che mettano una bomba all’Olimpico, io parlo anche con Belzebù».

 

Come se ne esce?
«Con la ventilazione della magistratura».

 

Frullarla via?
«Aprire ad altri l’accesso in magistratura: professori e avvocati. Aria fresca in una corporazione chiusa. E…».

 

E?
«Dopo la laurea, una Scuola superiore delle tre professioni giudiziarie per una comune cultura della giurisdizione. Poi si sceglie: chi avvocato, chi giudice, chi pm. Prima però, quindici giorni di carcere per tutti. Bugliolo, pane e acqua, ispezioni corporali».

 

(fonte: Giancarlo Perna, il Giornale, 2 giugno 2014)