Magistrati, perché c’è l’esigenza di sanzioni serie

Alfredo Mantovano

A parte il decreto legge sul “taglio delle liti”, che sarà votato dal Parlamento nei consueti sessanta giorni, quello dei sei disegni di legge usciti venerdì da Palazzo Chigi che ha maggiori probabilità di approvazione in tempi accettabili – in virtù di una compattezza della maggioranza e della disponibilità di una parte dell’opposizione – riguarda la responsabilità civile dei giudici: è ciò che ha permesso al presidente del Consiglio di lanciare il tweet “il magistrato che sbaglia paga”.

 

Dubito che con le nuove norme la massima trovi un’applicazione più incisiva rispetto al passato; è invece certo che, se e quando il disegno di legge verrà approvato, a beneficiarne, più che i cittadini danneggiati dalla mala giustizia, saranno le compagnie di assicurazione che avranno aggiornato con le loro polizze Rc.

 

Mi spiego facendo un passo indietro. Quando, pochi mesi dopo il referendum del 1987, passò, su iniziativa del prof. Vassalli, ministro della giustizia dell’epoca, la prima legge – quella ancora in vigore – sulla responsabilità dei magistrati, l’effetto fu che da quel momento ogni magistrato si è dotato della sua brava assicurazione: a un costo tutto sommato contenuto, grazie a una convenzione fra l’Anni e le compagnie che garantiscono la copertura dei rischi.

 

Le disposizioni varate dal Consiglio dei ministri non stravolgono il meccanismo della legge del 1988, si limitano a rettificarne qualche aspetto: eliminano il filtro di ammissibilità dell’azione del cittadino che si ritiene danneggiato, ma l’azione sarà comunque diretta non contro il giudice, bensì contro lo Stato; lo Stato potrà rivalersi contro il magistrato, come avviene già adesso, ma – questa è la seconda novità – trattenendo fino alla metà del suo stipendio annuale; sale anche il limite di esecuzione forzata sullo stipendio medesimo, da un quinto a un terzo.

 

Non sono in discussione né il comportamento doloso del giudice – se vi è dolo il privato danneggiato ha sempre potuto agire direttamente verso il magistrato, né la valutazione del fatto o l’interpretazione del diritto: vengono in considerazione a titolo di colpa solo la “violazione manifesta” del diritto o il “travisamento del fatto”.

 

Con queste modifiche il magistrato che intende lavorare senza pericoli per il proprio patrimonio non sarà stimolato più di tanto a migliorare professionalità e competenze: gli basterà attendere, a legge approvata, che l’Anm concordi con le compagnie di assicurazioni l’adeguamento della polizza Rc ai nuovi rischi; dagli attuali 150 euro annuali si arriverà a 200? È un sacrificio sostenibile! Anche il tweet andrà adeguato: non “il magistrato che sbaglia paga”, ma “ogni magistrato paga: qualche euro in più all’assicurazione; ma se sbaglia continua a pagare lo Stato”.

 

Ciò che resta al palo è, al di là degli slogan, l’esigenza di far corrispondere sanzioni serie a comportamenti negli agenti e sciatti, frutto di volontaria ignoranza o di superficialità. L’Anni continua nella sua difesa del corpo, definendo l’innocuo d.d.l. appena riassunto “punitivo” per i giudici italiani: non vi è dubbio che vanno respinte le generalizzazioni, e che va riconosciuto il lavoro intenso e nascosto di tanti magistrati, evitando che le colpe di alcuni diventino il marchio per tutti.

 

Ciò è possibile però se si concorda con serenità che le colpe di alcuni ci sono, e che di regola restano impunite: si dia uno sguardo, solo per fare un esempio fra i tanti, alle ordinanze con le quali quotidianamente le corti di appello italiane riconoscono gli indennizzi per ingiusta detenzione; nella motivazione di quelle ordinanze vi è spesso la descrizione di condotte giudiziarie indecorose, di privazioni di libertà sfornite di ragioni, di mantenimenti in carcere contro ogni evidenza, o – al contrario – di pronunce assolutorie che lasciano stupefatti. Qui non si tratta di essere “punitivi”; si tratta di rispondere alla domanda: è giusto che il giudice evidentemente colpevole di queste ingiustizie non paghi alcun pegno?

 

Per questo lo strumento della responsabilità civile non è adatto. Da decenni, a scadenze ricorrenti, chi vi ha riflettuto seriamente ha individuato il punto cruciale nella responsabilità disciplinare, cioè nella sottrazione del giudizio deontologico del magistrato dalla sezione disciplinare del Csm verso un organo disciplinare a sé, connotato da tendenziale imparzialità: esso potrebbe essere formato, per esempio, da ex giudici costituzionali o da ex presidenti di cassazione nominati dal Capo dello Stato.

 

A una soluzione simile pensava la bicamerale D’Alema, vi è una proposta da tempo formulata da Luciano Violante, e dal centrodestra in passato sono venute ipotesi analoghe, altrettanto apprezzabili: non è questione di destra o di sinistra, il consenso politico è potenzialmente ampio. Se la responsabilità disciplinare fosse svincolata da criteri elettivi-correntizi e agganciata a una verifica il più possibile oggettiva, non ci sarebbe copertura assicurativa che rendesse immuni dagli errori più clamorosi: la prospettiva di vedersi intaccata la progressione in carriera stimolerebbe a buon senso e a maggior lena, certamente più di qualche filtro sottratto alla responsabilità civile. È immaginabile un ripensamento in tal senso?

 

Alfredo Mantovano

 

(fonte: Il Mattino, 1 settembre 2014)