Black Hole, il “buco nero” e poi un inferno giudiziario durato nove anni e conclusosi con il proscioglimento. Ben 3285 giorni di indagini preliminari che non hanno superato nemmeno il vaglio del gup. Accuse senza capo né coda che hanno rovinato la vita, e la carriera, a centinaia di persone innocenti, fra cui l’ex deputato dell’Udc, ed ex sindaco di Termoli, Remo Di Giandomenico.
È il 2 febbraio 2006 quando un terremoto giudiziario scuote il Basso Molise. La procura di Larino, infatti, ordina l’arresto di Remo Di Giandomenico, ex professore di Antonio Di Pietro in seminario, di sua moglie, primario di ginecologia all’ospedale San Timoteo, dei vertici dell’ex Asl di Termoli.
Un anno dopo scatta l’operazione “Black Hole 2”, e questa volta a finire in carcere sono il comandante provinciale dei carabinieri di Campobasso, Maurizio Coppola (poi rimesso in libertà dal tribunale del Riesame), il capo della polizia giudiziaria dell’Arma alla procura di Larino e altri appartenenti alle forze dell’ordine. Coinvolto anche il comandante della Polizia municipale, Ugo Sciarretta (arrestato e anche lui rilasciato poco dopo).
A muovere i fili di entrambe le inchieste è il pm ed ex parlamentare dei Ds, Nicola Magrone, che ipotizza l’esistenza di un “corpo separato” dentro la struttura giudiziaria. Ben 106 fra indagati e arrestati vengono accusati di associazione a delinquere, corruzione, concussione, peculato, aborti clandestini, immigrazione clandestina. E a capeggiare la presunta “struttura malavitosa”, pilotando appalti nelle strutture pubbliche territoriali e facendosi informare di quanto accadeva in procura dai suoi complici tra le forze dell’ordine, ci sarebbe stato lui, Remo Di Giandomenico, sotto indagine dal 2003, iscritto nel registro degli indagati solo due anni dopo e obbligato dai magistrati all’esilio da Termoli.
Arresti e avvisi di garanzia erano scattati, ad esempio, per non aver pagato quindici fotocopie, per essersi collegati a siti porno dal pc dell’ufficio, per aver chiamato la moglie col telefono di lavoro. Nove anni di calvario giudiziario finiti in una bolla di sapone: davanti al gip, nemmeno dopo un lungo processo che gli imputati, a più riprese, chiesero di voler celebrare.
Nove anni sotto inchiesta e poi prosciolto senza neanche la necessità del processo. Una carriera politica brillante, quella di Remo Di Giandomenico, distrutta da un’inchiesta “monstre” finita come lui aveva preventivato. Un uomo perbene, come lui stesso si definisce, spedito, insieme alla moglie e a tanti altri, nelle forche caudine di una magistratura impazzita, e che oggi, dopo essere stato abbandonato dal suo stesso partito, l’Udc, ritrova l’onore. Ma a che prezzo?
Remo Di Giandomenico, nove anni di attesa e infine il proscioglimento da ogni accusa. Ma com’è possibile?
«Una domanda da rivolgere a qualcun altro. Quello che posso dire è che io, in questo territorio, soprattutto dopo aver battuto, alle elezioni del 2001, Antonio Di Pietro, rappresentavo il baluardo del centrodestra. Eliminato me, ne è seguito uno sconvolgimento politico. Il territorio è andato alla deriva, “invaso” da altri personaggi che in me avevano il loro unico ostacolo».
Una manovra politica più che un’inchiesta giudiziaria?
«Io tendo sempre, per mia formazione personale, a riconoscere la buona fede negli altri. Mi auguro ce l’avesse anche chi ha condotto l’indagine».
Buona fede dopo nove anni di indagini senza nulla di probante?
«Vede, questo per me è un momento di riflessione. Devo ancora tentare di capire cosa è veramente accaduto. Solo dopo cercherò la verità. Di una cosa però sono certo: è anche il sistema giudiziario, avvitato su se stesso, che porta a queste aberrazioni. Che sistema è quello che consente con tanta facilità la carcerazione preventiva? Però, anche se sono preda dell’amarezza, visto che questi 10 anni non me li restituirà nessuno, mi faccia godere il momento di soddisfazione. Per tutto questo tempo sono rimasto in attesa non di una sentenza, ma di un rinvio a giudizio. E poi? Un proscioglimento che, mi creda, non era difficile da pronosticare fin all’inizio. Non a caso, quando i magistrati chiesero il mio arresto, la Giunta per le autorizzazione della Camera votò no all’unanimità».
Lei ha subìto gli arresti domiciliari e poi l’esilio lontano dalla sua città. Ha pensato al peggio?
«Fortunatamente non sono mai arrivato a quel punto. Ero tranquillo. Tutti mi chiedevano come facessi ad essere così sereno, e io rispondevo che non poteva essere altrimenti, visto che non avevo commesso nessun reato».
Delle accuse a sua moglie, resta in piedi solo il presunto uso privato dell’ecografo dell’ospedale.
«Hanno distrutto la mia famiglia e ora tutte le accuse sono crollate, tranne questa, che nel peggiore dei casi andrà in prescrizione l’anno prossimo. Sono convinto di una cosa: se a utilizzare quell’ecografo fosse stata una persona diversa, non sarebbe accaduto nulla».
Lei, per anni, è stato descritto come un delinquente incallito.
«Mi hanno accusato di tutto: concussione, corruzione, voto di scambio, associazione a delinquere. Dicevano che io, come sindaco e parlamentare, mettevo becco, illegalmente, in ogni tipo di appalto, e che carabinieri e dipendenti della procura mi informavano di tutto. E invece pensi che non avevo la minima idea che stesse per scattare un provvedimento cautelare nei miei confronti. Strani informatori. Non è un caso se sono stati tutti prosciolti. Sa che mi hanno contestato anche la concussione dell’allora presidente della Regione, Michele Iorio, per la raccomandazione di una persona, senza però trovare traccia della mia presunta segnalazione? Era inesistente. Mi hanno poi accusato di una seconda concussione, riguardante il finanziamento per un inceneritore. Prosciolto perché il fatto non sussiste».
Il comandante dei carabinieri Coppola ha subìto forti ripercussioni psicologiche per questa inchiesta.
«È così, e mi dispiace moltissimo. Io, all’epoca, nemmeno lo conoscevo. Mi sono chiesto molte volte come sia stato possibile coinvolgerlo. L’unica risposta che mi sono dato è che lui, da persona retta, stava mettendo ordine all’interno dell’Arma dei carabinieri. Era l’uomo scomodo. Non vedo altra spiegazione logica. In questi anni ci siamo sentiti al telefono qualche volta. Lui mi chiedeva sempre di sollecitare il processo, per arrivare al più presto possibile a una conclusione, ma io tentavo di fargli capire che non saremmo stati nemmeno processati, di stare tranquillo perché nelle carte non c’era nulla contro di noi. Ero certo che quando un giudice indipendente avesse letto le accuse, avrebbe prosciolto tutti. Eppure per dieci anni ho chiesto quali fossero le accuse specifiche nei miei confronti, per potermi difendere, ma non l’ho mai capito bene. Tra l’altro nel secondo filone d’inchiesta, Black Hole 2, nemmeno ero indagato. Illogicità pura».
Il suo partito, l’Udc, l’ha difesa?
«Pierferdinando Casini mi disse che non poteva farci nulla perché aveva altro a cui pensare, presumo si riferisse a Totò Cuffaro, e che dunque non poteva badare a me. Mi ha abbandonato. Mi disse anche che però ero una brava persona. Ecco, su questo aveva ragione. Io sono una brava persona. Un mio amico parlamentare e magistrato, Nitto Palma, lesse le carte e disse solo una cosa: Remo, mi dispiace».
(fonte: Luca Rocca, Il Tempo, 4 aprile 2015)