Senato, in discussione disegno di legge per innalzare il risarcimento per l'ingiusta detenzione

DISEGNO DI LEGGE
d’iniziativa dei senatori BERSELLI, MUGNAI, LI GOTTI, CASSON e D’ALIA

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 26 FEBBRAIO 2009

Modifica all’articolo 315 del codice di procedura penale in materia di riparazione per ingiusta detenzione

Onorevoli Senatori,

1. Premessa

L’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è, come si legge nella relazione al nuovo codice di procedura penale, “istituto di assoluta novità” per il nostro sistema processuale, introdotto all’esito di un lungo dibattito, che ha finito con l’estendere ai casi di ingiusta detenzione il principio della necessaria riparazione dell’errore giudiziario, di cui all’articolo 24, quarto comma, della Costituzione. Ciò anche dietro sollecitazione della Corte costituzionale che, pur dichiarando l’infondatezza della questione relativa alla previsione del codice di rito del 1930, nella parte in cui escludeva la riparazione per ingiusta carcerazione preventiva – sentenza n. 1 del 15 gennaio 1969 – rinviava alla discrezionalità legislativa l’attuazione del precetto costituzionale, poiché il diritto alla riparazione, espressione del generale principio di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, necessita di appropriati interventi legislativi per conseguire concretezza.
Oltre al fondamento d’ordine costituzionale, l’istituto ha riferimenti normativi di natura sopranazionale nelle disposizioni di cui all’articolo 5, comma 5, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, di cui alla legge 4 agosto 1955, n. 848, e dell’articolo 9, comma 5, del Patto internazionale dei diritti civili e politici, di cui alla legge 25 ottobre 1977, n. 881, che sanciscono, l’una, il diritto ad una riparazione per ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione delle disposizioni contenute in quello stesso articolo, e, l’altra, il diritto ad un indennizzo per chiunque sia stato vittima di arresto o di detenzione illegali.

2. – L’originaria previsione codicistica e la novella del 1999 sull’aumento del limite massimo dell’indennizzo.
Sin dall’originaria disciplina codicistica si è previsto un tetto massimo di indennizzo. L’attuale previsione dell’articolo 315, comma 2, del codice di procedura penale, secondo cui l’entità della riparazione per l’ingiusta detenzione non può comunque eccedere euro 516.456,90, è il risultato della novella del 1999 – legge 16 dicembre 1999, n. 479, articolo 15, comma 1, lettera b) – che ha elevato a tale ammontare il limite codicistico di lire 100.000.000, giudicato concordemente troppo esiguo “e comunque destinato ad inficiare la concreta operatività dell’istituto…”, in assenza di un meccanismo periodico di revisione (A. Montaldi, sub artt. 314 e 315, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, IIl, Torino, 1990, p. 328).
Com’è stato ricordato nei primi commenti alla novella codicistica del 1999 (L. Scomparin, Commento all’art. 15, l. 16 dicembre 1999, n. 479, in Leg. pen., 2000, p. 335 ss.), nel corso dei lavori preparatori fu presa in esame la proposta di abbandonare la previsione di un limite massimo di indennizzo, contenuta in alcuni dei progetti di legge che confluirono nel testo dell’attuale riforma e in alcuni degli emendamenti al testo unificato.
La ragione dell’accantonamento di queste proposte si rinvenne nel parere espresso dalla Commissione bilancio, sulla base di rilievi legati alle esigenze di copertura finanziaria. La discussione proseguì tenendo ferma la necessità di un limite massimo di indennizzo, ma interrogandosi sull’opportunità di istituire soluzioni intermedie, quali la fissazione di un più elevato tetto massimo, pari a lire 500.000.000, o ancora la previsione di un’eccezione per i casi di particolare gravità, che avrebbero consentito il superamento della soglia massima fissata dalla legge, o infine la determinazione di un minimo riparabile, nell’intento di evitare il rischio di irrisorie riparazioni talora liquidate dai giudici.
La scelta finale fu dunque un compromesso fra diverse ed opposte istanze e, pur con la consapevolezza che in alcuni casi, segnati da una particolare forza infamante, in concreto, della ingiusta custodia o di una misura custodiale protrattasi per periodi molto lunghi, la riparazione può non compensare gli effettivi pregiudizi, si è preso atto dell’importante inversione di tendenza costituita dalla decuplicazione dell’iniziale limite massimo, tale da smorzare la preoccupazione di non aver attribuito all’istituto adeguate risorse finanziarie (E. Randazzo, Ingiusta detenzione: riparazione miliardaria, in Guida dir., 2000, XXXIX).

3. La diversità concettuale dell’indennizzo dal risarcimento del danno nella giurisprudenza di legittimità.
Sin dalle prime applicazioni, la giurisprudenza di legittimità ha affrontato la questione della natura della posizione soggettiva che la legge processuale attribuisce al soggetto che ha subito l’ingiusta detenzione, non soffermandosi invece sull’opportunità della previsione di un limite massimo per la liquidazione della somma da corrispondere a titolo di riparazione.
Con ogni probabilità, l’assenza di rilievi critici circa la fissazione per legge di un limite massimo di indennizzo può spiegarsi alla luce dell’inquadramento concettuale della riparazione come indennità, del tutto compatibile con la possibilità che il ristoro non sia necessariamente corrispondente ai pregiudizi subiti.
A tal proposito è stato ricordato che l’ordinamento tedesco, che aveva conosciuto con una legge del 1939 la fissazione di un limite massimo al ristoro dei danni materiali per ingiusta detenzione, ha poi provveduto all’abolizione di detto limite in occasione della riforma radicale della materia operata con una legge del 1971 (M.G. Coppetta, La riparazione per ingiusta detenzione, Cedam, 1993, p. 240).
E, da ultimo, ha osservato E. Turco (L’equa riparazione tra errore giudiziario e ingiusta detenzione, Giuffrè, 2007, p. 6) che la fissazione di un tetto massimo per la liquidazione dell’indennizzo è assolutamente inconciliabile con il meccanismo risarcitorio, «posto che, quest’ultimo, avendo come finalità il totale ripristino del pregiudizio economico subito, non potrebbe tollerare dei limiti di sbarramento imposti a priori dal legislatore». Non così, si deduce, per il meccanismo indennitario, a cui appartiene la riparazione per ingiusta detenzione, almeno secondo le determinazioni della giurisprudenza.
La previsione del rimedio indennitario non impedisce all’interessato di agire contro lo Stato per chiedere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non, subiti per effetto dell’ingiusta detenzione, facendo valere la responsabilità civile del magistrato di cui alla legge 13 aprile 1988, n. 117, che abbia agito con dolo o colpa grave. Dell’assenza di alternatività tra i due rimedi è conferma l’articolo 141 della legge 13 aprile 1988, n. 117, secondo cui “le disposizioni della presente legge non pregiudicano il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione”.
Entro queste coordinate di definizione dogmatica dell’equa riparazione per ingiusta detenzione si è mossa la giurisprudenza di legittimità.
La Suprema corte ha registrato la convergenza, nel dibattito interpretativo sul punto, circa la natura di diritto soggettivo, provvedendo poi a classificarlo tra i diritti civici, cui corrisponde l’obbligo di diritto pubblico dello Stato, avente ad oggetto una prestazione consistente nel pagamento di una somma di denaro. Non si è di fronte ad una pretesa di natura risarcitoria, perché l’obbligo dello Stato non nasce ex illecito, ma da una doverosa solidarietà verso la vittima di un’indebita custodia cautelare che, in aggiunta alle tutele dirette della libertà personale previste dall’ordinamento sia in funzione preventiva che di rimedio successivo anche per mezzo di norme incriminatici, si vede riconosciuto il diritto a un equo ristoro di carattere patrimoniale, il cui contenuto non è costituito dalla rifusione dei danni materiali, intesi come diminuzione patrimoniale e lucro cessante, ma dalla corresponsione entro il tetto massimo dell’indennizzabile, di una somma compensativa delle conseguenze personali, di natura morale, patrimoniale, fisica e psichica.
Sulla strutturale diversità dell’istituto dell’equa riparazione per ingiusta detenzione dal risarcimento del danno ha ancora argomentato la Suprema corte a sezioni unite. Dopo aver premesso che il diritto al risarcimento può scaturire «o da un inadempimento contrattuale, nel qual caso comprende tanto il danno emergente quanto il lucro cessante, oppure da fatti illeciti, che, se integrano gli estremi di reato, oltre ai predetti danni patrimoniali, attribuiscono il diritto al risarcimento dei danni morali…”, la sentenza ha osservato che nell’uno e nell’altro caso l’esistenza dei danni patrimoniali deve essere rigorosamente provata, e che la liquidazione in via equitativa è consentita soltanto ove non si possa dare prova precisa del loro ammontare.
La riparazione per ingiusta detenzione non si collega all’esistenza di un danno risarcibile e prescinde dalla prevedibilità di esso e dalla colpa del fatto causante. Si tratta, ha precisato la suddetta sentenza, di un “diritto che si costituisce sulla base di un rapporto lecito e di un’attività legittima, quale quella statuale giudiziaria, e si fonda su un danno obiettivamente ingiusto causato da quella attività”. Il suo fondamento è costituito dal rapporto di solidarietà civile, sicché la sua attuazione è affidata a criteri prettamente equitativi.
In forza di questa collocazione concettuale la riparazione per ingiusta detenzione si connota in un area di ontologica diversità rispetto al risarcimento del danno: questo risponde al fine di un totale ripristino della situazione patrimoniale; la prima, invece, non mira all’eliminazione per intero degli effetti negativi dell’ingiusta detenzione, tant’è che il legislatore ha previsto un tetto di spesa “oltre il quale non ritiene di dovere andare e oltre il quale non potrebbe, invece, non andare se si trattasse di risarcire il danno”.
Ancora sull’estraneità all’ambito risarcitorio dell’azione volta ad ottenere l’equa riparazione per l’ingiusta detenzione si è pronunciata, più di recente, la Suprema corte a sezioni unite, che, dopo avere evidenziato come detta azione tenda al ristoro delle sofferenze d’ordine personale e familiare (morali e patrimoniali), derivanti da un atto giudiziario pienamente legittimo, ha spiegato che il diritto alla riparazione è soddisfatto per mezzo dell’attribuzione di un’indennità quantificata, in via principale, con il ricorso al criterio dell’equità, perché l’interessato avrebbe altrimenti indubbie difficoltà per dare la prova, nel suo preciso ammontare, delle lesione subita. Non ha poi mancato di precisare che l’indagine giudiziale, condotta con ampia libertà di apprezzamento del caso concreto, non può “condurre a risultati comportanti uno sfondamento del tetto, pur normativamente fissato, dell’entità massima della liquidazione”.
Nella giurisprudenza delle sezioni semplici, che ha ribadito gli approdi interpretativi appena richiamati circa la diversità dell’istituto dalla nozione di risarcimento del danno, si è precisato che la pur condivisibile scelta legislativa di apprestare un rimedio non risarcitorio pone la questione della qualificazione dell’indennizzo, conoscendo l’ordinamento vari tipi di indennizzo, da quello per la perdita o la limitazione di un diritto – nel caso dell’espropriazione per pubblica utilità, servitù coattive e occupazioni di fondi altrui –, a quello derivante dalla conclusione di un contratto – nel caso del contratto di assicurazione che vede l’assicuratore tutelato da un limite alla sua responsabilità –, a quello ancora per pregiudizio derivante da una condotta conforme all’ordinamento che però è produttiva di un danno – nel caso di cui all’articolo 2045 del codice civile del danno provocato da chi ha agito in stato di necessità, o dell’articolo 2047, comma 2, del codice civile del danno cagionato dall’incapace –. Su questa premessa in esame ha concluso che la riparazione per ingiusta detenzione si avvicina a tale ultima specie di indennità, inquadrabile nella figura dell’”atto lecito dannoso”: “l’atto, infatti, è stato emesso nell’esercizio di un’attività legittima (e doverosa) da parte degli organi dello Stato anche se, in tempi successivi, ne è stata dimostrata (non l’illegittimità ma) l’erroneità o l’ingiustizia”.
Ancora, la Suprema corte, ha utilizzato come premess
a delle argomentazioni di motivazione la strutturale diversità dell’equa riparazione per ingiusta detenzione dal risarcimento del danno. Se l’obbligo risarcitorio deriva da un inadempimento contrattuale o da un fatto illecito e postula la rigorosa prova del danno e del suo preciso ammontare, l’obbligo riparatorio per ingiusta detenzione ha altra origine, nascendo dall’esercizio di un’attività lecita, qual è la funzione giurisdizionale. Non ha natura risarcitoria ed ha ad oggetto un equo indennizzo riconosciuto dallo Stato per ragioni di solidarietà civile: come tale non necessita di rigorose prove del danno, che è quantificato in via equitativa.

4. Le critiche della dottrina alla fissazione di un limite massimo dell’indennizzo
La dottrina, di contro, ha espresso forti riserve sulla previsione di un limite massimo per la quantificazione della somma erogabile a titolo di riparazione per ingiusta detenzione.
M. G. Coppetta (op. cit., p. 240 ss.) ha, a tal proposito, osservato che la fissazione di un limite massimo altera, se non addirittura stravolge, la fisionomia della riparazione e dei relativi criteri di valutazione. A prescindere dai sospetti di incostituzionalità, l’Autrice ha rilevato che la previsione di un limite massimo mortifica il criterio guida della valutazione equitativa ed è del tutto inadeguata a soddisfare le pretese riparatorie in assenza di un meccanismo di rivalutazione, capace di sottrarre la somma liquidabile alla spirale della svalutazione monetaria.
Esigenze di contenimento della spesa pubblica stanno a fondamento della previsione in esame, che non ha corrispondenza nella disciplina della riparazione dell’errore giudiziario: questa asimmetria sembra potersi spiegare con la durata mediamente più breve della custodia cautelare ante iudicium rispetto alla detenzione seguita dal giudizio di revisione. E però, la funzione di riparazione, che deve costituire un intervento proporzionato alla singolarità del caso, non tollera un siffatto limite, neppure in riferimento ad una privazione della libertà che non si protragga per un lunghissimo tempo. Anche se si potesse dimostrare che la custodia cautelare di durata media non è idonea a modificare radicalmente la vita di un individuo fino al punto di imporre un intervento riparatorio di ampia portata, la previsione del tetto massimo di indennizzo sacrificherebbe comunque, in forza di una logica di uniformazione di trattamento, proprio quei casi che rappresentano la più dolorosa eccezione, raggiungendo il massimo di durata della custodia cautelare.
Peraltro, la previsione di un limite massimo di indennizzo conduce ad escludere l’ammissibilità di forme di riparazione diverse dalla corresponsione di una somma di denaro, preferibili, in talune ipotesi, per una più efficace funzione ristoratrice dei pregiudizi morali e familiari. Queste forme, costituite ad esempio dalla costituzione di una rendita vitalizia e al ricovero di un istituto a spese dello Stato, che sarebbero ammissibili in forza del rinvio che la disciplina della riparazione per ingiusta detenzione fa a quella della riparazione dell’errore giudiziario, da non intendersi limitato alle disposizioni procedurali, trovano un insuperabile ostacolo nella fissazione di un tetto massimo di indennizzo, che è del tutto incompatibile con l’assenza in esse di una rigida predeterminazione quantitativa della prestazione.
In linea con queste considerazioni critiche si colloca anche E. Turco (op. cit.,. p. 110 ss.), la quale ha aggiunto un rilievo fondato sulla comparazione con la disciplina della riparazione dell’errore giudiziario, che non conosce un limite massimo per la liquidazione della somma riparatorio e che tale limite dovrebbe patire se a fondamento della previsione per la riparazione per ingiusta detenzione ci fosse soltanto il giustificabile timore di un’eccessiva incidenza dell’istituto sul bilancio dello Stato.
Ha ancora osservato che la differenza di trattamento non può essere spiegata in ragione della durata generalmente più breve della custodia cautelare rispetto alla detenzione seguita dal giudizio di revisione, perché la durata della custodia cautelare può, nelle ipotesi più gravi, risultare particolarmente lunga, potendosi protrarre, ai sensi dell’articolo 303, comma 4, lettera c) del codice di procedura penale, fino a sei anni.
Non ha inoltre trascurato di porre in evidenza come la previsione di un tetto massimo mortifichi la funzione stessa della riparazione che, pur quando rimedia ad un ingiusto atto cautelare, mira al ristoro dei pregiudizi personali e familiari subiti dall’interessato. Ha poi rilevato che, data la previsione del tetto massimo di indennizzo, il giudice non potrebbe mai adottare misure alternative (ricovero in un istituto a spese dello Stato o costituzione di una rendita vitalizia, pur previsti per la riparazione dell’errore giudiziario) alla corresponsione di una somma di denaro, più adeguate al ristoro di pregiudizi, morali e fisici, particolarmente duraturi e gravi – nel caso, ad esempio, del soggetto che contragga durante la custodia cautelare carceraria l’AIDS o una patologia psicologica che necessita di un lungo intervento di un medico specialista –. Ha infine evidenziato che il connotato equitativo della valutazione del giudice, implicando un prudente e globale apprezzamento di tutte le singole voci di danno emergenti in concreto, non può tollerare l’imposizione di sbarramenti pecuniari.

5. Conclusioni

Ciò è tanto vero anche e soprattutto considerando che la durata complessiva della custodia cautelare prevista dal codice attuale, può arrivare, come si è visto, per i reati più gravi, fino a sei anni. Pertanto una persona che avesse sofferto un così lungo periodo detentivo e che fosse poi stata prosciolta (caso non infrequente) potrebbe ricevere a titolo di equa riparazione la somma massima di euro 516.456,90, equivalente ad euro 235,82 per ognuno dei circa 2.190 giorni di carcere! Tale risulta, aritmeticamente, la valutazione stabilita dalla legge italiana per la sofferenza quotidiana patita da un innocente in carcere. Ma se gli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale prevedono espressamente per chi sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile e che precedentemente sia stato sottoposto a custodia cautelare un’equa riparazione per la sofferta ingiusta detenzione che non può comunque eccedere il vecchio miliardo di lire, il successivo articolo 643 del medesimo codice di rito prevede per chi sia stato prosciolto in sede di revisione il diritto ad una riparazione senza alcun tetto per l’errore giudiziario commisurata alla durata dell’eventuale espiazione della pena o internamento. Da ciò consegue che se uno abbia subito un periodo di detenzione di sei anni per un errore giudiziario può reclamare un indennizzo senza alcun limite mentre chi abbia trascorso il medesimo periodo di detenzione in sede di custodia cautelare può ottenere un indennizzo per ingiusta detenzione non eccedente, come si è visto, 516.456,90 euro. Diverso e ingiustificato trattamento indennitario per un identico periodo di detenzione. Ciò anche perché i parametri di riferimento per la liquidazione dell’indennizzo sono i medesimi in funzione di quanto prevede il terzo comma dell’articolo 315 del codice di procedura penale. Stando così le cose si propone di modificare il secondo comma del medesimo articolo superando il limite del vecchio miliardo di lire.

DISEGNO DI LEGGE 1411

Art. 1.

(Modifica all’articolo 315 del codicedi procedura penale)
1. Il comma 2 dell’articolo 315 del codice di procedura penale è abrogato.

Art. 2.

(Copertura finanziaria)
1. Al maggior onere derivante dall’attuazione della presente legge, valutato in euro 30 milioni per l’anno 2009 e in euro 60 milioni a decorrere dall’anno 2010, si provvede mediante corrispondente incremento, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, delle aliquote di base di cui all’articolo 28 del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, per il calcolo dell’imposta sui tabacchi lavorati destinati alla vendita al pubblico nel territorio soggetto a monopolio.