Gli errori giudiziari Jacques Verges

Gli errori giudiziari secondo Jacques Vergès

Pubblichiamo l’introduzione di Giuliano Ferrara al libro Gli errori giudiziari di Jacques Vergès , in uscita per la casa editrice Liberilibri. L’autore del saggio, è uno degli avvocati penalisti più famosi al mondo, ha difeso terroristi e criminali, dai militanti del Fln algerino come Djamila Bouhired, che poi divenne sua moglie, al boia nazista Klaus Barbie, il capo della Gestapo a Lione, torturatore di Jean Moulin e responsabile della deportazione di migliaia di bambini ebrei. Ha assistito terroristi internazionali come il venezuelano Ilich Ramìrez Sànchez, in arte “Carlos”, il libanese Anis Naccache, mancato assassino del premier iraniano Shapour Bakhtiar per ordine di Khomeini, graziato da Mitterrand per intercessione dello stesso Vergès. Ha difeso anche fedayn palestinesi e khmer rossi cambogiani, come Georges Ibrahim Abdallah, Wadie Haddad, George Habbash, come Pol Pot, Khieu Samphan, suo compagno di studi, e politici efferati e sanguinari, da Omar Bongo a Abdoulaye Wade, sino a Slobodan Milosevic. In questo saggio affronta il tema degli errori giudiziari. E a Giuliano Ferrara è stata affidata l’introduzione del volume Gli errori giudiziari di Jacques Vergès.

Gli errori giudiziari Jacques Verges
La copertina del libro “Gli errori giudiziari” di Jacques Verges.

«Jacques Vergès è noto come l’avvocato del terrore (è il titolo di un film a lui dedicato), come difensore in giudizio del male incarnato – tra gli altri – in Klaus Barbie, criminale nazista, o in Carlos the Jackal (Ilich Ramirez Sanchez), terrorista comunista e poi islamista radicale. L’avocat de la terreur è anche celebre per il mistero che lo circonda, da lui sapientemente amministrato. Per nove anni, questo legale di grido e di buona famiglia borghese, le cui origini asiatico-coloniali sono immerse anch’esse nell’oscurità, scomparve del tutto dalla scena parigina e dal mondo pubblico, in un lungo percorso di privacy molto simile a una clandestinità.

Sposò Djamila Boupasha , resistente algerina torturata dai paracadutisti francesi. Ma la sua vita avventurosa, alla fine, è stata al servizio di una dottrina dreyfusarda classica, ispirata al più ferreo garantismo giuridico e all’avversione pugnace contro l’ingiustizia: accertare la colpevolezza di una persona, anche la più esposta al pregiudizio dell’opinione pubblica per crudeltà dell’immagine o per fragilità della condizione sociale, è un atto di giustizia che richiede mente sgombra, cuore aperto e libero, disponibilità a valutare ogni possibile elemento in ogni possibile direzione, fuori da un partito preso corporativo o di altra natura (religioso, castale). La giustizia che voglia onorare il proprio nome non può dunque che essere figlia, prima di ogni altra cosa, di una riforma morale del cuore e della mente umani: ingombrati, come ciascuno sa, proprio dal partito preso, dall’orgoglio di corpo, e dal multiforme preconcetto nelle sue varianti di conformismo culturale e di obbedienza clericale. Nel suo esame degli errori giudiziari più noti, e famigerati, una summa di casi storici che Michel Foucault avrebbe chiamato “esperienze limite”, cioè luoghi di elaborazione e sperimentazione di nuova conoscenza, si rende chiaro che per dare soddisfazione a questa sete di vera giustizia non c’è che un modo, e solo uno: il rispetto certosino delle regole del gioco.

Aiuta, certo, una procedura penale accusatoria, anglosassone. Chi formula l’imputazione e ha il compito di indagare su un reato per stabilire con certezza chi lo abbia commesso deve stare su un piede di parità con chi difende l’indagato e poi l’imputato. Ma non basta. Nelle fasi decisive (il dibattimento processuale) in cui si forma la prova, vale a dire la prova esposta alla dialettica delle deduzioni e controdeduzioni, ciò che importa è la limpida imparzialità di chi giudica nel disporre modi e forme di escussione dei testimoni, l’utilizzo degli esperti. E infine la valutazione della cosiddetta regina delle prove, la infida confessione, che con l’annessa chiamata in correità può essere il suggello apparentemente limpido e irrefutabile della peggiore delle ingiustizie (oltre che la maschera ideologica, tra inquisizione a sfondo religioso e psicoanalisi, di un’ibrida commistione tra peccato e reato

I due casi giudiziari maggiori dell’Italia contemporanea , o almeno quelli che hanno scatenato passioni civili consapevoli in una direzione o nell’altra, e hanno nutrito vaste campagne mediatiche ancora non esaurite, sono il caso Sofri e il caso Berlusconi, diversi tra loro che più non si potrebbe ma accomunati dal ruolo principe della confessione (il racconto di Leonardo Marino sul delitto Calabresi, e la chiamata in correità per mandato omicida) e delle testimonianze (tutta la vicenda giudiziaria di Berlusconi, sul versante corruzione e su quello mafioso, è attraversata dalla caccia alle deposizioni di pentiti e dall’uso disinvolto di rancori e partito preso di natura personale e politica, accoppiato talvolta con un evidente abuso delle regole del gioco, come nel caso delle intercettazioni). Ma anche nelle faccende di cronaca più discusse e universalmente note – l’infanticidio di Cogne è solo un esempio – si rintracciano elementi decisivi della casistica sull’errore giudiziario analizzata in queste pagine: la televisione, poi, rende cruciale l’uso obliquo degli esperti, che foraggiano dall’esterno il dibattimento con una derrata ingente di opinioni libere spacciate per referti professionali, distaccate dagli obblighi deontologici di una effettiva expertise processuale, il tutto nel clima eccitato della ricerca dell’audience commerciale.

La questione dei media la troviamo , rovesciata, già a pagina 17 di questo libretto, a conclusione del racconto riguardante il capitano Alfred Dreyfus. E la trasvalutazione del significato dell’informazione, cent’anni dopo il J’accuse di Émile Zola, è sorprendente. Fino a lì siamo colpiti dal fattore tempo: nel Settecento, a metà del secolo, tra la commissione di un delitto, la falsa imputazione, la condanna in errore giudiziario e la riabilitazione passano cinque anni, dal 1761 al 1765 (il caso Calas). Un tempo incredibilmente breve, specie se commisurato al processo infinito che contraddistingue la procedura moderna e postmoderna dei tribunali (italiani in particolare).

Fino a lì abbiamo incontrato la dottrina di Montaigne , che aiuta a ragionare, come sempre in direzione insieme scettica e credente: un buon giudice deve coltivare “quell’inquietudine dell’animo che fa sì che dopo aver trovato la verità la si cerchi ancora” (l’inquietudine dell’animo è la versione stoica e a suo modo cristiana di un inesauribile stato di ricerca della coscienza personale). Il che non sembra un brocardo morale proprio della deontologia odierna della magistratura requirente, certa di sé oltre ogni inquietudine e ben riparata dietro il “libero convincimento del giudice” che può sentenziare anche al di qua di un ragionevole dubbio, e non solo in Italia. Ma quanto ai media, ecco che l’appello garantista, il grido d’accusa zoliano in difesa dell’innocente, si trasforma nella sistematica funzione inquisitoria che una stampa cosiddetta di contropotere pretende di esercitare fin dentro la logica dei tribunali. Maître Vergès dovrebbe esaminare la situazione del circuito mediatico-giudiziario nel laboratorio sperimentale italiano, già paradigmaticamente evocato dai saggi di Daniel Soulez-Larivière, e si accorgerebbe del fatto che la “logica del dossier”, quel pregiudizio costruito sul concatenamento degli errori di fatto e di diritto compiuti dalla pubblica accusa, ma non più smentibili se non a caro prezzo, nasce in Italia principalmente nelle pagine dei giornali e nelle trasmissioni televisive militanti e nella loro attività inesausta di dossieraggio contro le persone: la logica del dossier non è altro che la famosa gogna».

 

Giuliano Ferrara

(fonte: Il Foglio, 11 maggio 2011)