Infangati dalle Procure, assolti quand’è troppo tardi

Forse la sintesi migliore l’ha data in poche, non democristiane parole, Arnaldo Forlani, uno dei generali della politica italiana spariti nel nulla con Mani pulite: «La verità cammina con passo normale, le bugie volano». Forlani, quello della bava alla bocca davanti a Di Pietro, pronunciò quelle parole ai funerali di Antonio Gava, potentissimo ministro dell’Interno, messo fuori gioco da un avviso di garanzia per presunti obliqui rapporti con la camorra e il clan degli Alfieri. Era settembre ’93. Attenzione alle date: Gava rimane sei mesi sei agli arresti domiciliari, poi subisce un processo logorante e sfiancante che si trascina per anni. Non c’è niente da fare, l’avviso di garanzia è un colpo mortale che fa il giro del mondo, la risalita dalla palude è lenta e incompiuta. Due giorni prima di morire, l’8 agosto 2008, lo Stato gli riconosce 200 mila euro per l’ingiusta detenzione patita. Troppo tardi. I giudici non gli hanno risparmiato nulla, nemmeno la domanda sul tumore che Gava ignorava di avere. Soprattutto un provvedimento della magistratura, poi rivelatosi fuori bersaglio, ha chiuso d’ufficio una lunghissima e importantissima carriera.

Calogero Mannino è sopravvissuto ad un processo per mafia impaludatosi per diciassette anni e pure a nove mesi di sosta in una cella di Rebibbia, ma certo anche per lui l’assoluzione strappata giovedì difficilmente sarà un passpartout per tornare ai vertici del Palazzo. Per carità, l’Italia è cambiata, ma il punto è che una classe dirigente è stata spazzata via con accuse feroci che spesso, non sempre certo, si sono rivelate infondate. O eccessive. O semplicemente non sono state dimostrate.

C’è stata in un pezzo di magistratura italiana la pretesa di riscrivere la storia del Paese in chiave giudiziaria. I risultati sono quelli che conosciamo: Andreotti, l’imputato modello Andreotti, tenuto a bagnomaria e accusato, lui che è stato sette volte presidente del Consiglio, di essere il mandante dell’omicidio di Mino Pecorelli e colluso, anzi organico, a Cosa nostra. Anche Andreotti ha superato le prove, sia pure con la macchia di una prescrizione all’italiana che ciascuno è libero di interpretare come meglio crede, ma è ormai impossibile restituire un futuro, sulla soglia dei novant’anni, al politico forse più popolare d’Italia. È andata così.

Il rispetto scrupoloso della liturgia processuale non ha pagato. Ci sono voluti dieci anni e più per recuperare l’innocenza perduta. Troppi. Tempi e sofferenze che molti politici hanno provato. Non solo i big ma anche i peones e i colonnelli. Come Pierluigi Polverari, ex operaio, poi deputato di Lecco e vicesindaco della sua città. Polverari porta il Psi al 18,5 per cento in riva al lago, poi finisce, lui che era vicinissimo a Craxi, nel frullatore delle inchieste. Accuse su accuse, avvisi di garanzia, sempre più giù, trascinato nel fango dal più inverosimile dei pentiti che lo collega, addirittura, alla ’ndrangheta. «Contro di me furono scritti trecentocinquanta articoli sui giornali, mi dipingevano come un bandito, non c’erano sfumature». Poi, a distanza di dieci anni, le contestazioni evaporano, i processi finiscono in niente, l’onore viene restituito come fosse un oggetto smarrito. «Ma ormai era tardi, troppo tardi. Il Psi era stato distrutto, noi socialisti non avevamo perso una battaglia, ma la guerra. E il nostro capo non c’era più». Polverari ha seguito Bettino in Tunisia: «Fu proprio Craxi a darmi l’idea giusta: del resto in Italia non avevo più niente da fare, era stata decretata la mia morte civile, avevo già mandato mio figlio a studiare all’estero. E poi non mi va di fare il reduce».

Certe stagioni finiscono, poi le accuse possono pure cadere, ma ormai la politica ha preso un’altra direzione. Come insegna un’altra storia esemplare: quella dell’avvocato milanese Serafino Generoso. Il democristiano Generoso è una stampella per la giunta, l’ennesima, che tenta di tenere in vita la prima Repubblica nelle stanze del Pirellone, quartier generale della Regione Lombardia. Il 25 novembre ’92, in piena convulsione da Tangentopoli, Fiorella Ghilardotti, del Pds, dà vita ad un’ammucchiata di sette partiti. Nella coalizione ci sono anche i Dc: Serafino Generoso e Giuseppe Adamoli. Ma la speranza arcobaleno viene bruciata nello spazio di un mattino: Adamoli e Generoso vengono arrestati, la giunta si sfalda, la politica ambrosiana getta la spugna. Di più: il caso Generoso si trasforma in un dramma umano. Due volte in manette, un poker di processi, lo sciopero della fame come arma estrema per tentare una difesa difficilissima. Poi, con calma, arriva anche il secondo poker: questa volta sono assoluzioni. Ma, ormai, la Dc e la prima Repubblica sono solo un ricordo.

Dalla prima alla seconda Repubblica, dagli anni Novanta agli anni Zero, cambiano i nomi, non i metodi. Gaetano Pecorella, deputato ed ex presidente della Commissione giustizia della Camera, è inchiodato da otto anni ad una vaghissima accusa di favoreggiamento, per una vicenda legata a Piazza Fontana. Dopo una lunga carambola fra le Procure di Brescia e Milano, l’indagine ha ingoiato le ambizioni dell’avvocato che puntava alla Corte costituzionale. Settecentocinquantamila pagine ingombrano ancora i tavoli dei Pm di Milano. Finiranno al «macero» della prescrizione, insieme alle chance di Pecorella.

Stefano Zurlo

(fonte: il Giornale , 16 gennaio 2010)

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