Manette e scaricabarile: la malagiustizia continua

Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione

Il primo presidente della Corte di Cassazione, che i lettori più anziani ricorderanno come equilibrato pm dello scandalo Italcasse a Roma nei primi anni ’80, scandalo poi finito praticamente nel nulla, ieri ha svolto una coltissima relazione di inaugurazione anno giudiziario. Farcita di citazioni che vanno da Marcel Proust a Piero Calamandrei, passando attraverso Raffaele La Capria. Ma se si dovesse sintetizzare la sua diagnosi sui mali della giustizia italiana, che secondo lui, almeno dal punto di vista penale, non sarebbe corretto definire «allo sfascio», ancorché sia la Corte europea dei diritti dell’uomo a farlo, si potrebbe usare la nota espressione «Cicero pro domo sua».

Anche nel nominare l’indulto per svuotare le carceri ma non l’amnistia per levare inutili fascicoli dalle scrivanie dei pm ha fatto, chissà se inconsciamente, una scelta ben precisa. Ma non condivisibile.

 

Le riforme che vanno fatte secondo lui non sono giammai la separazione delle carriere tra pm e giudicanti, o la responsabilità civile del giudice per colpa grave, in testa al singolo e non alla collettività. O, Dio non voglia, mettere mano alla Costituzione per togliere l’ipocrisia di quell’obbligatorietà dell’azione penale che è la più formidabile delle «excusatio non petitae» per il malfunzionamento dei processi: la si mette sempre davanti in tutti i discorsi sapendo che poi viene interpretata dagli stessi magistrati con criteri tutti interna corporis e senza che il Parlamento o il potere esecutivo possano mai sognarsi nemmeno di pensare di potere mettere bocca. O becco.

Santacroce invece incentra tutti i problemi nel sistema delle impugnazioni e grosso modo, si capisce, vorrebbe riforme per la procedura penale analoghe, mutatis mutandis, a quelle già introdotte nel codice di procedura civile.

Cioè negare quanto più possibile ai cittadini l’accesso alla giustizia. Nel caso della giustizia civile la pessima «riforma» voluta dalla Severino e portata avanti anche dalla Cancellieri si basa sostanzialmente sull’innalzamento delle tasse e delle spese per i diritti di bollo e anche del parametro incredibile fissato dal contributo unico. Per non parlare dell’istituto della «media conciliazione», già una volta bocciato dalla Corte costituzionale, che consiste in un tentativo obbligatorio, e a pagamento, di mettere d’accordo le parti. Può costare sino a 10 mila euro se il valore della causa supera i 5 milioni di euro. Cosa che spingerà molti poveri Cristi a non fare mai causa a un’azienda. Ad esempio per fattori di inquinamento, vedi caso Ilva, se non con la protezione di una class action. Laddove questa sia possibile.

 

Per il lato penale del problema, Santacroce propone ulteriori filtri al ricorso in appello e a quello in Cassazione. E dice che già avviene così in mezzo mondo, lodando infine la grande produttività dei giudici italiani.

Bene, uno potrebbe accusarlo di corporativismo esistenziale e magari ricordargli pure che «chi si loda si imbroda». Ma altre cose vanno dette visto che questo giornale, insieme al sito Errorigiudiziari.com, è stato il primo (e l’ultimo e anche l’unico) a rivelare come negli ultimi 24 anni in Italia siano stati compiuti circa 50 mila errori giudiziari, a una media di 2500 ogni dodici mesi.

Bene questo con le impugnazioni, caro Santacroce, ha ben poco a che vedere. E molto invece con la responsabilità civile su base personale dei magistrati.

Inoltre, va detto, se in Italia fosse reso impossibile o molto più difficile ricorrere alla Cassazione per gli ordini di custodia cautelare e in appello nel merito, a sommesso avviso di molti esperti, i casi come quello di Enzo Tortora si moltiplicherebbero esponenzialmente.

 

Troppo comodo trincerarsi dietro qualche statistica (le hanno lette tutti e non interpretate in maniera così agiografica verso la casta in toga come ha fatto Santacroce) secondo cui il grado di produttività di sentenze dei giudici italiani negli ultimi due anni è aumentato e le sopravvenienze nel campo penale e civile sono diventate più contenute, di modo da azionare timidamente, e per la prima volta, la ruota di un circolo finalmente virtuoso. Ma basta questo per auto assolversi e a cercare altrove le cause di una situazione, ad esempio carceraria, che «ci offende come popolo e ci umilia in Europa», per usare le parole del Capo dello Stato?

 

Troppo comodo, primo presidente. Troppo comodo dare la colpa agli avvocati e alla troppa litigiosità degli italiani che, secondo lei, andrebbe strozzata nella culla. Per dare più giustizia non va reso più difficile adire le vie giudiziarie. Serve invece di organizzare meglio il lavoro di tribunali e procure. Di riportare negli uffici un minimo di gerarchia e di eliminare i protagonismi di chi, nella casta in toga, usa la propria funzione come trampolino di lancio verso la politica, e ne abbiamo visti tanti, troppi, negli ultimi anni. E infine lei non parla , se non per vaghi accenni, della necessità ormai indefettibile, di interrompere quel fenomeno che si potrebbe definire di «meritocrazia mediatica», per il quale all’interno dei tribunali e degli uffici del pubblico ministero, vige la regola che quello che va più spesso nei talk show e che riceve più applausi quando pontifica è anche quello che fa più carriera. Dentro.

 

Dimitri Buffa

 

(fonte: Il Tempo, 25 gennaio 2014)