Prima di essere seviziate, pugnalate, legate e date alle fiamme nel greto di un fiume, Barbara e Nunzia avevano passato il pomeriggio a giocare nel cortile fra i loro palazzi, a Ponticelli. Si erano allontanate mano nella mano, con un sacchetto pieno di merendine, verso il tramonto. Era il 2 luglio di trent’anni fa. Non tornarono mai a casa. Barbara Sellini e Nunzia Munisi avevano 7 e 10 anni. I loro cadaveri semi carbonizzati vennero trovati il giorno dopo. E iniziò così, in quella lontana estate del 1983, una frenetica «caccia al mostro». Quella voglia di giustizia si concluse con la condanna all’ergastolo in via definitiva, dopo un processo pieno di colpi di scena, di tre ragazzi del quartiere. Tre operai tra i 19 e i 21 anni: Giuseppe La Rocca, Luigi Schiavo e Ciro Imperante. Loro si sono sempre detti innocenti, dal primo istante. E dopo 27 anni passati in carcere e tre da uomini liberi (sono usciti di galera il 28 ottobre del 2010) erano tornati speranzosi a chiedere per la terza volta la revisione del processo. Inutilmente: oggi la quarta sezione della Corte d’Appello di Roma ha respinto la loro richiesta.
IL DOSSIER DI 1.330 PAGINE – Il collegio dei giudici, presieduto da Carmelita Russo, ha dichiarato inammissibile l’istanza di revisione presentata dagli avvocati Ferdinando Imposimato, Eraldo Stefani e Francesco Stefani. Le motivazioni saranno rese note tra 90 giorni. I legali dei tre operai avevano presentato, l’anno scorso, una documentazione di 1.330 pagine, frutto di una contro inchiesta lunga due anni e mezzo. Gli avvocati hanno annunciato che faranno ricorso in Cassazione. Del resto i punti messi in luce dal dossier sollevano più di una domanda sulle indagini portate avanti negli anni Ottanta.
IL MISTERO DELLA 500 BLU – Gli avvocati di Ciro Imperante, Luigi Schiavo e Giuseppe La Rocca hanno presentato una denuncia contro Enrico Corrado. L’uomo, conosciuto tra i ragazzini di Ponticelli, all’epoca ammise di essere un soggetto violento e già responsabile di aggressioni a donne e bambine. Atti di violenza che si accentuavano quando per sua stessa ammissione si ubriacava. L’uomo però uscì presto di scena. Nonostante avesse una 500 blu scuro con un fanalino rotto, come quella su cui erano state viste salire Barbara e Nunzia la sera del delitto. Pochi giorni dopo il massacro delle due bambine Corrado fece rottamare la macchina. Nessuna prova. In una prima pista, che non ebbe sviluppi, si era parlato anche di «un uomo, capelli rossi e tutto lentiggini». E che oggi è ancora vivo.
IL VALZER DELLE ACCUSE – Se i tre ragazzi furono condannati dipese soprattutto dalle dichiarazioni di un ragazzo che conoscevano, Carmine Mastrillo. Il giovane raccontò di aver incontrato i tre in una discoteca proprio la sera del duplice omicidio e che loro stessi gli avevano raccontato quello che avevano appena fatto alle due bambine. Il fratello di uno degli accusati, Salvatore La Rocca, li aveva poi aiutati a disfarsi dei cadaveri. Benché Mastrillo avesse parlato di un «ferro» come arma del delitto – non compatibile quindi con le ferite da lama riscontrate con l’autopsia -, fu ritenuto credibile. In più anche Salvatore ammise la sua responsabilità, incastrando di fatto il fratello e gli altri due ragazzi. Subito dopo però disse di aver «confessato» solo perché sottoposto a minacce e torture in caserma. E ritrattò. Come, a sorpresa, fece anche il «super testimone» Mastrillo durante un’udienza. La cosa incredibile è che, immediatamente dopo, ritrattò la ritrattazione. Un confuso valzer di accuse e smentite che non aiutò a fare luce sulla verità. Mentre i tre ragazzi furono bollati per sempre come «i mostri di Ponticelli».
«NON VOGLIONO UN RISARCIMENTO» – Quando i tre, ormai uomini di 51 e 49 anni, oggi hanno ascoltato il terzo «no» alla loro richiesta di revisione sono rimasti senza parole. A uno di loro è scappato un amaro: «Bastardi, questa è la giustizia in Italia». Giuseppe La Rocca, Luigi Schiavo e Ciro Imperante oggi sono sposati e hanno dei figli. «Non chiedono un risarcimento – ripetono i loro avvocati – ma solo che venga accertata la verità». La stessa a cui hanno diritto Barbara e Nunzia e i loro familiari.
(fonte: Corriere della sera, 30 maggio 2013)