Che cos’aveva fatto di male Jérôme Crainquebille, venditore ambulante di verdura fresca? Nulla, all’apparenza. Spingeva, come d’abitudine, il suo carretto per le vie di Parigi, gridando ai passanti: “Cavoli, rape, carote!”. Il peggio che se ne potesse dire è che ostruiva un poco il traffico. Ma in rue Montmartre, tra il fragore delle carrozze e dei barrocci e il trapestìo dei passanti, l’agente 64, che aveva intimato a Crainquebille di sgombrare la strada, credette di sentirgli pronunciare, in risposta, un irriverente: “Porca vacca!”.Ed ecco che, acciuffatolo per il bavero, trascinava fino in commissariato il verduraio allibito, che lo guardava “con i suoi occhi bovini e bruciati dal sole”. Un episodio trascurabile, un nonnulla.
Eppure, quasi smossi dai loro scranni celesti, tutti gli dèi e i demoni della Giustizia piombarono sulla testa del povero Crainquebille, come neri avvoltoi. Principati e Potestà, Troni e Dominazioni si diedero convegno nell’aula magnifica e tetra dove Crainquebille, sul banco degli accusati, vide intorno a sé “i giudici, i cancellieri, gli avvocati in toga, l’usciere gallonato, i gendarmi, e, dietro un tramezzo, le teste nude degli spettatori silenziosi”. L’agente 64 era un semplice agente di prefettura, certo, ma anche un agente di prefettura è una particola del Principe: “Il Principe risiede in ciascuno dei suoi ufficiali. Compromettere l’autorità dell’agente 64 è indebolire lo stato. Mangiare una foglia del carciofo è mangiare il carciofo, come dice Bossuet nel suo linguaggio sublime”.
E questo esempio, c’è da giurare, persino il verduraio Crainquebille poteva capirlo bene. Del pari, anche il processo più insignificante, che debba accertare il più sciocco dei casi, è una particola del grande Leviatano giudiziario: “La maestà della giustizia risiede integralmente in ogni sentenza resa dal giudice in nome del popolo sovrano”.
Corrado Carnevale ebbe, lui pure, l’incontro rivelatore con il suo Crainquebille, un caso non meno esemplare di quello immaginato nel raccontino di Anatole France. Fu quando, giovanissimo uditore giudiziario in tirocinio presso il tribunale di Palermo, si trovò ad assistere alla sua prima udienza penale.
“Tra gli imputati c’era un tale, un giovanotto dai capelli luccicanti di brillantina, accusato di aver borseggiato una signora che era andata a ritirare la pensione all’ufficio postale. Io avevo seguito, com’era mio dovere, il dibattimento, che si era ridotto a pochissime battute. Il pubblico ministero si era limitato a chiedere la condanna precisando l’importo della multa, la difesa non aveva affrontato nessun argomento. Quando fummo in camera di consiglio, i componenti del collegio s’impegnarono in una dotta dissertazione sul trattamento pensionistico dei magistrati europei – argomento che non poteva intrigarmi più di tanto, dato che per me la pensione era lontanissima, ma che soprattutto poco aveva a che fare con il tema che dovevamo discutere, la responsabilità di quel malcapitato. Dopo che furono arrivati alla conclusione che, naturalmente, il peggiore trattamento pensionistico era quello dei magistrati italiani, il presidente si rivolse al collega cui spettava di redigere la motivazione della sentenza e chiese: Quantu ci damu? (la discussione si svolgeva in dialetto siciliano, cosa che non mi dispiaceva affatto). Che pena gli diamo? Scusate un momento, obiettai io: la derubata non ha riconosciuto l’accusato, testimoni non ce ne sono, la somma sottratta non si è trovata nella sua disponibilità. In base a quali elementi questo signore dovrebbe essere condannato? La domanda mi pareva legittima. Ma il presidente mi rispose: ‘Tu sei un sofista’. Sarò pure un sofista, ma almeno spiegatemi, perché vorrei capire. E lui: ‘Ma tu lo sai chi è l’imputato? E’ un barbiere. E lo sai quand’è avvenuto il furto? Era un lunedì’. Allora capii dove volessero andare a parare. E soltanto perché era barbiere, quel poveretto si beccò sei mesi di reclusione. Da allora mi sono sempre trovato a disagio nell’ambiente”.
L’ambiente a cui allude Carnevale non è il tribunale di Palermo, ma più in generale la magistratura. “La casta a cui appartengo – tra virgolette, dieci virgolette a destra e dieci a sinistra – fin dal primo momento non mi ha visto di buon occhio. E tante volte, già da allora, mi chiesi se avevo fatto bene a entrare in magistratura”. Una prima occasione di ripensamento la offrì proprio il processo al barbiere, inchiodato alle sue colpe oltre ogni ragionevole dubbio dal suo giorno di ferie. Un’altra furono le riunioni del comitato direttivo dell’Associazione nazionale magistrati, cui Carnevale ebbe occasione di partecipare dopo il suo trasferimento a Roma nel 1954: “Si discuteva di tutto tranne che di come far funzionare meglio la giustizia. Già allora, a metà degli anni Cinquanta, c’erano gli stessi problemi di oggi, ancorché in scala ridotta. E loro parlavano solo di stipendi, o più esattamente di aumenti di stipendio. Io ero, pensi un po’, addirittura destinato a far carriera nell’associazione, ma mi sono dimesso dall’Anm e non ne faccio più parte dal 1957. Tutto questo mi ha messo in serie difficoltà”.
Le serie difficoltà non impedirono a Carnevale di fare una carriera fulminante e di diventare, nel 1985, presidente della Prima sezione penale della Cassazione. “Trovai una pendenza mostruosa, di oltre settemila processi, che tutti ritenevano non potesse essere ridotta. In meno di due anni riuscii ad azzerare l’arretrato, senza ammazzare nessuno. Semmai avrò ammazzato qualche sentenza, come vuole il soprannome affibbiatomi dalla casta”, scherza Carnevale – l’“ammazzasentenze”, appunto, come lo battezzò un alto magistrato palermitano, e come presero a chiamarlo i giornali. Il giudice, cioè, che in nome di un astratto formalismo – così si diceva allora, e lo si sente dire ancora – “vanifica” il lavoro dei pubblici ministeri, specie nei grandi processi di mafia. Ma guai a irridere come formalismo l’osservanza della legge scritta: “Quando il giudice si considera legibus solutus e piega le leggi al suo fine, foss’anche per intenti nobili, mette lo stato sullo stesso piano delle organizzazioni criminali”. Nella legge ci sono sì la lettera e lo spirito, ma questa tensione non sia degradata a un’alternativa becera tra i cavilli e la sostanza. Perché è su un cavillo, a volte, che si gioca la tenuissima separazione tra civiltà e barbarie, tra diritto e violenza. Francesco Carrara, grande giurista liberale che Carnevale annovera tra i suoi maestri, aveva ben presente questo genere di pericoli già due secoli fa, quando ammoniva: “Cessino dallo insinuare che siano nemici dei buoni e che siano perniciosi alla società civile coloro che combattono pel santo fine che la giustizia penale non divenga flagello degli innocenti”.
Prima il caso di Don Stilo, poi quello di Rocco Chinnici, e da allora non ci fu tregua per Carnevale: “Non c’era mia udienza che il giorno dopo, su Repubblica, l’Unità o altri giornali analoghi, non venisse investita di contumelie. Si verificò un fatto stranissimo: la personalizzazione delle sentenze della Corte di Cassazione. La sezione all’epoca aveva altri quattro presidenti e trenta consiglieri, le decisioni erano collegiali, eppure si parlava di me come se fossi giudice unico: ‘Carnevale ha fatto questo, Carnevale ha fatto quest’altro’. A volte mi attribuivano anche le sentenze di collegi che non avevo presieduto”. Poi, dagli anni Novanta, all’attacco giornalistico si aggiunse la lunga trafila dei processi. Prima, a Napoli, il caso della cessione della flotta Lauro, in cui Carnevale era accusato di concorso nell’interesse privato del commissario straordinario De Luca: “Io fui assolto per non aver commesso il fatto; De Luca, anni dopo, perché il fatto non sussiste.
Dunque sarei stato non concorrente in un fatto insussistente: una situazione degna di Pirandello”. E poi, soprattutto, il lungo processo di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, che con alterne vicende tenne Carnevale sulla graticola fino all’assoluzione con formula piena del 30 ottobre 2002.
I pochi garantisti d’Italia – si sarebbe felici di chiamarli pattuglia: ma neppure quello sono, agiscono alla spicciolata – gridarono alla persecuzione giudiziaria. Marco Pannella disse che Carnevale era vittima di un fondamentalismo da stato etico, “di una magistratura e di una giustizia che non fa processi ma fa una guerra, e quindi tutto si giudica dai risultati dei plotoni d’esecuzione”. Giuseppe Di Federico parlò della “più violenta aggressione che si sia mai verificata nel mondo occidentale all’indipendenza del giudice”. Mauro Mellini sostenne che Carnevale, reo solo di applicare la legge, era oggetto di una “persecuzione insistente, articolata, subdola ed impudente” perché inviso alla giustizia dell’emergenza permanente e a certe avanguardie che si trascinavano dietro tutta la corporazione togata.
“L’on craint la magistrature et non pas les magistrats”. E’ la magistratura che temiamo, non già i magistrati, diceva Montesquieu in un passo spesso citato da un altro decano scomparso del garantismo italiano, Vincenzo Caianiello. “Concordo appieno. Ma la magistratura non è un’entità astratta, la compongono i magistrati – ci tiene a sottolineare Carnevale – Presi singolarmente sono persone perbene, quando invece operano in quanto magistrati la cosa cambia aspetto. Per esempio, la magistratura è restia ad applicare nuovi istituti che abbiano sullo sfondo, come premessa, l’errore di un giudice. Potei constatarlo in almeno due occasioni. La prima, quando entrò in vigore il nuovo Codice di procedura penale che prevedeva la riparazione per ingiusta detenzione. Ebbene, nei primi tempi i giudici si arrampicarono sugli specchi pur di non applicare l’istituto nuovo. E lo stesso fecero con la cosiddetta legge Pinto, introdotta per cercare di frenare i ricorsi alla Corte europea di Strasburgo dei malcapitati che subivano ritardi nell’amministrazione della giustizia. La legge era fatta per consentire, come suol dirsi, di lavare i panni sporchi in famiglia: si previde che l’indennità per la durata irragionevole dei processi potesse essere chiesta a un giudice nazionale. Ma anche in questo caso, sulle prime, i magistrati si arrampicarono sugli specchi”.
Era stato Leonardo Sciascia, per primo, a illuminare questo nesso oscuro tra lo spirito corporativo dei magistrati e la possibilità, o meglio l’impossibilità, dell’errore. Nel “Contesto” il presidente della Corte suprema sostiene, con paralogismo atrocemente circolare, che l’errore giudiziario non esiste, giacché è la giustizia stessa a costituire il colpevole come tale. A quella terribile fantasia Sciascia tornò nell’ottobre del 1983, all’ombra del caso Tortora. I giudici, scrisse sul Corriere della Sera, muovono “dalla più o meno sommersa convinzione che gli errori giudiziari non esistano o che sempre e comunque abbiano delle giustificazioni”. Esercitano “una professione difficile e di quotidiana inquietudine. E sarebbero inibiti ad esercitarla se non riuscissero a respingere ai margini, in un marginale baluginio della coscienza, la preoccupazione dell’errore. Hanno bisogno anzi, singolarmente e ancor più in quanto corporazione, di credere impossibile l’errore. (…) Da ciò l’afflato corporativo, per cui soltanto da loro e tra loro può farsi distinzione tra i migliori e i peggiori, e l’irritabilità ad ogni critica che venga dal di fuori”.
“Ho letto tutto Sciascia – confida Carnevale – Quando ero sospeso dalle mie funzioni per via dei processi, tenevo sul tavolo l’opera omnia. Queste frasi colgono esattamente la realtà. Ed è una realtà che non si può accettare. Certo, a giudicare i giudici sono pur sempre dei giudici. Ma l’errore viene sanzionato solo quando riguarda un magistrato che non fa parte di una corrente associativa. In quel caso, anzi, anche quando l’errore non c’è, lo si colpisce lo stesso. Cosa che però accade molto di rado, perché tutti i magistrati, vivendo in quell’ambiente, non solo si iscrivono all’Anm ma cercano di affiliarsi alla corrente che meglio li possa tutelare; e la disciplina di corrente è ancor più rigorosa di com’era la disciplina di partito quando c’erano i partiti. Attualmente, non succede nulla in magistratura che non sia voluto dalle correnti: si mettono d’accordo su tutto, anche per la scelta dei componenti delle commissioni di concorso per l’ammissione in magistratura. Non c’è bisogno della zingara per indovinare quali saranno i prossimi prescelti per gli uffici giudiziari più importanti, perché molto tempo prima le correnti si accordano in base a leggi non scritte ben più efficaci della legge scritta, e che comunque non hanno nulla a che spartire con il merito. Questo vale anche per le elezioni dei giudici costituzionali. A tal segno arriva l’arroganza di chi amministra il destino dei magistrati. E i magistrati che non si adeguano ai voleri della casta vengono colpiti senza possibilità di difesa”.
Dalla corporazione Carnevale è stato sempre mal visto perché insofferente a certi rituali della vita associativa e poco incline alla diplomazia (“ahimè, non mi sono mai guardato dal non essere inopportuno”); e anche – forse soprattutto – perché considerato un garantista, che in fin dei conti è una riformulazione del “sofista” che gli affibbiò il presidente di quella prima udienza palermitana. Ma la parola garantismo proprio non gli va a genio. “Tutti gli ‘ismi’ mi danno fastidio. Il giudice dev’essere soggetto alla legge. Si dice: soltanto alla legge; io aggiungerei: almeno alla legge, il che non è così scontato. Quando applica la legge, con intelligenza – perché le leggi vanno interpretate, occorre comprenderne la ratio – deve garantire le libertà e i diritti degli altri. Ha un potere enorme, che deve accompagnarsi a una responsabilità ancora più grande. Dev’essere in grado, nei limiti in cui è consentito agli uomini, di fare giustizia. E nel fare giustizia il garantismo che c’entra? Non esiste per il giudice qualcosa di diverso dall’applicazione corretta, intelligente della legge. Punto”.
Sembra di sentir risuonare l’antica voce di Mario Pagano, illuminista napoletano che Carnevale conta tra i suoi ispiratori e i suoi livre de chevet: “Per costante principio stabilire si può, che a misura che più grande sia l’arbitrio del giudice, sia men sicura la libertà civile. Con così fatta stabile norma misurare si può la libertà che ogni popolo gode. Felice e fortunato quello, ove infinito sia il poter delle leggi, e limitato assai quello del giudice; ove costui sia il semplice braccio e la voce della legge, anzi la legge istessa animata e parlante, e niente di più”. Questo si legge nelle “Considerazioni sul processo criminale”, del 1797. Questo ripete oggi Carnevale, noncurantemente démodé. “Se non tentiamo di far questo, se non diventiamo ‘la legge animata e parlante’, come possiamo giustificare anche davanti alla nostra coscienza l’esercizio di un potere enorme? Ci sono giudici che vedono in chiunque si rivolga a loro, se non un nemico, un seccatore da allontanare il prima possibile. Io quando dovevo occuparmi, per esempio, di processi nei quali era stata inflitta la pena dell’ergastolo, sentivo l’esigenza di compiere tutti gli sforzi che mi era consentito, nelle mie capacità, per capire se nel ragionamento del giudice di merito potesse esserci qualche lacuna, qualche salto logico. Chissà quante volte avrò sbagliato, ma ho sbagliato dopo essermi veramente piegato sulle carte. I processi li studiavo una prima volta il mese precedente, ed è notorio che ne conoscevo anche i dettagli meno significativi. C’è un avvocato che mi ricorda sempre di quella volta che, alle dieci di sera, lo interrupp
i perché aveva sbagliato il soprannome di un testimone”.
La sua conoscenza perfino dell’ultimo iota delle carte processuali è, in effetti, leggendaria. Mellini descrisse Carnevale in udienza come un direttore d’orchestra, che domina gli atti alla stregua di una partitura musicale, e con pochi gesti misurati della mano dà a intendere di aver compreso le argomentazioni delle parti. “Ma ci sono giudici che si presentano in udienza impreparati, e si limitano a chiedere ragguagli al relatore che dovrebbe essere più al corrente dei fatti, degli atti e delle persone. Una volta ho sentito perfino chiedere: Cu è u fetiente? Il giudice che fa così si rifiuta di essere giudice, anche se è il suo compito. E questo è gravissimo”. La sciatteria, la trascuranza, il disprezzo delle forme e delle carte, è il peccato mortale di chi veste la toga. “Si dice che in Cassazione io abbia inventato la camera di consiglio in materia penale. Nelle prime udienze vedevo il pubblico ministero che faceva un segno con il pollice, in alto o in basso: segnalava al presidente se era per il rigetto o l’accoglimento. E il presidente scriveva il dispositivo mentre gli avvocati ancora discutevano. Tutto questo non è una semplice caduta di professionalità, ne è la mancanza assoluta. Senza menzionare quei magistrati che hanno avviato processi clamorosi e hanno lasciato, in attesa di interrogarli, diversi imputati in prigione: se ne sono dimenticati”.
Quanto al carcere preventivo, Carnevale vorrebbe – lo ha confidato ad Andrea Monda in un bel libro intervista, “Un giudice solo” – che in tutti gli uffici giudiziari fosse esposta questa pagina di Voltaire: “Sbattere un uomo in carcere, lasciarvelo solo in preda alla paura e alla disperazione, interrogarlo solamente quando la sua memoria è smarrita per l’agitazione, non è forse come attirare un viaggiatore in una caverna di ladri e assassinarlo?”. Come considerare i magistrati che, presi da casi che ritengono più urgenti, si scordano un imputato dietro le sbarre? “Questi non sono dei magistrati. E si badi, non sto dicendo che non sono dei buoni magistrati: non sono magistrati, punto e basta. Se uno sceglie solo i casi che lo appassionano non fa il suo dovere. Ma quando questo accade nessuno prende provvedimenti”.
D’altro canto, non è chi non veda che i controlli sull’operato dei magistrati non sono poi così stringenti. “Ci sono magistrati che hanno fatto brillantissime carriere malgrado una vita professionale costellata di errori, negligenze, ritardi. Il magistrato che non voglia lavorare lo può fare benissimo senza che gli succeda nulla, non solo nell’immediato, anche quando si tratterà di valutare il suo lavoro ai fini della progressione, che oggi è legata esclusivamente all’anzianità, al decorso del tempo. Per i magistrati vale quel che diceva Napoleone: ogni soldato porta nella sua giberna il bastone di maresciallo di Francia. Tutti i magistrati, dopo ventisette anni, acquistano il diritto al trattamento economico del presidente di sezione della Corte di Cassazione, a meno che non abbiano, che so, platealmente ucciso la madre. Ma è stato promosso persino un personaggio sorpreso nei bagni di un cinema di periferia, a Roma, con un ragazzino”. L’incredibile vicenda è raccontata per filo e per segno nel breviario di patologia giudiziaria di Mauro Mellini, “La fabbrica degli errori”.
“Ai magistrati non accade nulla se non lavorano, ma anche se lavorano male. Pensiamo ai due pm che si occuparono del caso Tortora, una cosa veramente indecente. Uno degli elementi d’accusa era l’agenda di un camorrista, nella quale era stato trovato accanto al nome di Tortora un certo numero di telefono. Sarebbe bastato incaricare un appuntato dei carabinieri per comporre il numero e accorgersi che non apparteneva a Tortora. E non parliamo del numero elevatissimo di persone che arrestarono per omonimia. Un pubblico ministero che imbastisce processi che si risolvono in una bolla di sapone, impiegando tempo e risorse, qualcosa dovrebbe subire. Non è necessario prevedere sanzioni drastiche come l’allontanamento o delle sanzioni pecuniarie milionarie, basterebbe impedirgli di accedere a funzioni più elevate e più impegnative”.
Qualunque cosa si pensi di Carnevale, si dovrà ammettere che la sua carriera non è stata fortunata come quella dei magistrati del caso Tortora. “Mi hanno riammesso in Cassazione con tre anni di ritardo rispetto a quanto mi sarebbe spettato, e dopo avermi costretto a rivolgermi al Tar. Ma non solo, si è arrivati anche alla Corte costituzionale, perché hanno sollevato un conflitto di attribuzioni”. E anche allora, la battaglia legale non è finita. “Tra poco compirò ottantun anni. Non voglio dire di essere stato il magistrato più perseguitato d’Italia, perché mi metterei sul piano di altri che rivendicano primati di questo tipo. Ma quello che ho subìto io, per fortuna, sono stati in pochi a subirlo”. Inutile tentare di estorcergli riflessioni generali sulla legge e la giustizia. “Non mi piace discutere di questioni astratte e accademiche: mi àncoro ai fatti che conosco e che posso documentare. Ma le racconterò un episodio, di quando in Corte d’assise mi trovai a giudicare un reato particolarmente grave. Era il caso di una donna che aveva ucciso il marito. Lui ne aveva combinate di tutti i colori, ma lei lo aveva ucciso in malo modo: mentre dormiva, gli aveva gettato addosso della benzina e poi gli aveva dato fuoco. Era stata giudicata seminferma di mente. In camera di consiglio avevo l’abitudine di illustrare il caso ai giudici popolari, e così feci anche quella volta. La presentai così bene che un giudice popolare, laureato in Legge, esclamò: ‘Non possiamo applicarle il perdono giudiziale!’, che è un istituto che si applica solo ai minorenni. Ecco, ho sempre cercato di giudicare il mio simile nel modo più umano possibile, senza eccessi di moralismo. Non mi sono sentito diverso e migliore anche del peggiore delinquente che talvolta mi è capitato di dover giudicare”.
Suona come una variante del precetto evangelico “non giudicate”, nel quale secondo Sciascia dovrebbe radicarsi, per paradossale che possa suonare, la missione stessa del giudice. “Benedetto Croce diceva che non possiamo non dirci cristiani, e aveva ragione. Il cristianesimo ha degli aspetti che non dovrebbero essere trascurati. Io sono credente. Ma grazie al cielo il cristianesimo non è una corrente associativa”.
(fonte: di Guido Vitiellio, Il Foglio, 11 Aprile 2011)