"In prigione, sporco straniero"

Era ospite al Salone del Vino di Torino, si è ritrovato nella cella comune di una caserma. Aveva trascorso la giornata tra i calici di rosso, ha dovuto passare la notte in mezzo ai clandestini, senza neppure un bicchier d’acqua. Il dramma di Aman Sharma, responsabile «food and beverage» del gruppo Taj, la più importante catena alberghiera indiana, inizia venerdì alle 22,30. Aveva passato il pomeriggio incontrando un gruppo di produttori vinicoli, poi è tornato in albergo, l’Hotel Genio, un tre stelle a fianco della stazione Porta Nuova, a due passi dal centro, ma anche al confine con San Salvario, il quartiere degli immigrati torinesi.

Sharma si infila un paio di jeans, un pullover e una giacca ed esce per andare a cena. E’ un manager continuamente in viaggio, parla perfettamente inglese ma neppure una parola di italiano e non è mai stato a Torino. L’unica sua «colpa» è aver sbagliato direzione: scegliendo di fare due passi, si è ritrovato nel cuore del quartiere multietnico. E al momento sbagliato: improvvisamente si accendono gli abbaglianti della polizia e scatta una retata. Sharma spiega che il suo passaporto è in albergo. Mostra la patente indiana e le carte di credito, cercando di spiegarsi in inglese con gli agenti. Ma qualcuno gli dice: «Se proprio vuoi stare in questo Paese, è meglio che impari l’italiano». Arrivano i carabinieri, caricano il «buyer» indiano e gli altri extracomunitari sulle auto e portano tutti in caserma

Gli svuotano le tasche e lo mettono dietro le sbarre, in una cella comune. Ad Aman Sharma basterebbe una telefonata per sciogliere l’equivoco, ma dice che non gliel’hanno concessa. Chiede un bicchiere d’acqua: «Questo non è mica un hotel a cinque stelle», è la risposta. Sconcertato e spaventato, non può far altro che arrendersi, trascorrendo la notte in mezzo agli spacciatori senza chiudere occhio.

«Una storia assurda, uno sbaglio colossale», dice Subhash Arora, presidente dell’«Indian Wine Academy», che ha guidato la delegazione a Torino. «Sabato mattina non abbiamo visto Aman arrivare agli appuntamenti e abbiamo iniziato a preoccuparci. All’albergo non sapevano nulla, il telefono era muto, eravamo sul punto di iniziare a setacciare gli ospedali della città: pensavamo avesse avuto un malore».

L’incubo kafkiano inizia a svanire in tarda mattinata, quando qualcuno finalmente decide di occuparsi di quell’uomo così «fuori posto» dietro le sbarre. «Lui è un gentleman, un professionista tra i più importanti di tutta l’India nel mondo del vino – spiega Arora -. Alle 11, dopo che è riuscito a parlare con un addetto del servizio immigrati, gli agenti sono andati all’hotel, hanno fatto un controllo e poco dopo l’hanno rilasciato. Ci ha detto che non gli hanno neppure consegnato un verbale. Ha preso un taxi ed è tornato in albergo».

La storia si diffonde subito tra gli stand del Salone, anche se Aman Sharma preferisce tenere un profilo basso: non chiama l’ambasciata, non denuncia pubblicamente l’episodio. Anzi, tenta di reagire, si presenta accigliato agli appuntamenti di lavoro cercando di dimenticare. «Ci siamo subito messi in contatto con lui, gli abbiamo espresso tutto il nostro rammarico. Stiamo cercando di capire cosa sia successo esattamente, ma, se fosse tutto confermato, sarebbe opportuno presentare delle scuse», dicono dalla direzione del Salone del Vino.

Subhash Arora parla un italiano stentato, ma le sue parole pesano: «E’ stata violata la dignità umana, il mio connazionale ha subito un trattamento inspiegabile. Ottenere un visto d’ingresso per l’Italia è già complicato, ma questa volta è stato superato il limite. Amo il vostro Paese, siete un popolo straordinario e ricco di cose belle, ma non oso immaginare le reazioni se questa storia dovesse finire sui giornali indiani. E’ un vero peccato, proprio adesso che i rapporti tra le due nazioni vanno così bene. E poi è paradossale che tutto ciò sia successo proprio a Torino, la città dove è cresciuta Sonia Gandhi».

(fonte: Roberto Fiori, La Stampa, 29 ottobre 2007)