Elvo Zornitta non è Unabomber: “Ora sono molto più sereno”

Elvo Zornitta

Unabomber era lui, l’ineffabile ingegnere Elvo Zornitta. Classe 1957, origini venete, segni particolari: imperturbabile, ordinatissimo, preparatissimo. «Diabolico» tradussero gli inquirenti ricordando il contrasto fra il suo aspetto così normale, giacchettina maglioncino cravattina, una vita borghese da buon padre di famiglia, e la sua straordinaria capacità criminale.
Un dottor Jekyll e mister Hyde, un uomo in grado di gabbare tutti riuscendo a piazzare quattro bombe mentre era indagato, intercettato e pedinato, di mutilare bambini avendo una figlia piccola, di profanare chiese nonostante la profonda fede religiosa. Era lui il mostro. Così, almeno, fino al 2009, quando la procura di Trieste decise di archiviare tutto perché tutto era diventato dubbio e forse non era più Zornitta l’imprendibile bombarolo del Nord Est, 30 ordigni in dieci anni, dal 1994 al 2004, 6 feriti.
Qualche sospetto sull’ingegnere rimase. Mercoledì scorso la Cassazione ha però confermato la condanna del suo «persecutore», il poliziotto Ezio Zernar, che secondo la giustizia avrebbe truccato la prova regina (il lamierino di un ordigno) per incastrarlo, sancendo così la fine del caso Unabomber. Zornitta la vive come una liberazione: «Da oggi sono molto più sereno».

 

Cosa le rimane di questa vicenda?
«Un ricordo penoso. Ero diventato il mostro e la mia famiglia viveva con il mostro. Un’esperienza che mi ha toccato mentalmente, socialmente, economicamente: ho perso anche il lavoro da dirigente. Oggi faccio praticamente l’impiegato e guadagno molto meno».

 

Perché puntarono su di lei?
«Forse perché avevano bisogno di un colpevole: c’era troppa pressione mediatica, un pool di quaranta persone che indagavano e gli attentati sempre più frequenti. Dovevano dare una risposta rapida».

 

Riconoscerà comunque che il suo profilo era sospetto: ingegnere, appassionato di bricolage, un piccolo laboratorio, la casa al centro della «zona Unabomber», la frequentazione di alcuni luoghi degli ordigni… Cosa avrebbe fatto lei al posto degli inquirenti?
«Avrei forse deciso anch’io una perquisizione perché era evidente che il folle andava cercato fra gli appassionati di bricolage. E avrei anche messo una pattuglia a seguirmi, come quella che avevo alle calcagna. Ma poi mi sarei fermato perché avrei capito che Zornitta non poteva costruire quelle trappole da meccanico imbranato».

 

Al di là del lamierino, a casa le furono trovati 48 involucri di ovetti kinder e la fialetta della Paneangeli, come quelli delle bombe, e poi i petardi …
«I petardi erano quelli di Capodanno, gli ovetti li raccoglieva mia figlia, la fialetta era come quelle che usavo per fare le lampadine dei miei presepi. Mi dissero: non è possibile. Ecco la tesi precostituita».

 

C’è anche il fatto che da quando è «scoppiato» il suo caso Unabomber non ha più colpito. Una sfortuna pazzesca, non crede?
«Lo credo sì».

 

Il momento più brutto?
«Il giorno in cui mi è stato detto da un giornalista che avevano trovato la prova regina contro di me. Ho pensato che avessero già deciso una sentenza e mi è venuta paura. La grande sofferenza è stata invece mia figlia. Aveva otto anni, oggi ne ha diciotto. È cresciuta con l’indagine su Unabomber, una pena. Penso sia maturata prima delle sue coetanee, più forte e grintosa e ha le idee chiare: non farà mai l’avvocato, il magistrato o il poliziotto. Dedicherà la sua vita ad aiutare gli altri nel mondo della sanità».

 

Chiederà un risarcimento?
«A chi? Zernar risulta nullatenente. Il mio avvocato, Maurizio Paniz, che ringrazio, farà causa allo Stato per responsabilità organica del funzionario. Ma la vedo molto complicata».

 

Qualcuno dirà che lei è stato così diabolico da far condannare anche chi la stava per incastrare.
«Già, e correrò per il Nobel del crimine».

 

(fonte: Andrea Pasqualetto, Corriere della Sera, 7 novembre 2014)