Carlo Parlanti, 8 anni in un carcere Usa. "Io innocente e abbandonato dall'Italia"

“Sì, ora sono libero. Ma ho perso tutto. Però posso promettere una cosa: darò battaglia finché non avrò giustizia”. Carlo Parlanti, 48 anni, racconta la sua incredibile storia in un’intervista esclusiva ad Affaritaliani.it. Un passato da importante manager informatico, arrestato nel 2004 per stupro. Ad accusarlo la sua ex ragazza americana. Senza prove, con tante bugie. Della donna, dei medici, della polizia: “Contro di me sono stati commessi crimini inauditi, provati dalla documentazione della stessa procura californiana”. Carlo rifiuta il patteggiamento, che avrebbe significato l’immediato rilascio, e trascorre quasi otto anni nella prigione di Avenal.

 

L’esperienza in carcere è drammatica: “Il sistema americano è basato sulla violenza e sul sovrappopolamento. Ci sono continue risse e la condizione igienica è tragica. Le guardie girano in tenuta antisommossa”. E in tutto questo l’Italia ha tenuto una posizione defilata: “Nessuno si è curato della mia storia, mi hanno abbandonato”. Ora Carlo è un uomo libero, è tornato nella sua Montecatini (Pistoia) e promette guerra: “Voglio riaprire il caso e sporgere denuncia contro chi ha permesso che un uomo innocente vivesse un’esperienza simile. E la cosa più grave è che so per certo che non sono il solo”.

 

Carlo, come e quando sei arrivato negli Stati Uniti?

 

“Nel 1996 lavoravo per la filiale italiana di una società informatica americana, la JD Edwards. Qualche anno dopo sono stato ingaggiato dalla multinazione Dole, che stava reinstallando i sistemi di finanza in tutto il mondo. Sono andato negli Stati Uniti e ho cominciato a lavorare nella filiale  che si occupa di vegetali di Salinas. Poi nel 2000 mi sono trasferito nella loro casa madre, pochi chilometri a nord di Los Angeles in una cittadina che si chiama Westlake Village, per dirigere una gestione di acquisti strategici a livello mondiale. Il mio lavoro prevedeva frequenti viaggi e, dato che stavo uscendo con questa ragazza che da poco aveva perso il lavoro, le ho offerto di aiutarmi a trasferirmi e in cambio le ho offerto la possibilità di stare con me nel mio appartamento fino a quando non avesse trovato una nuova sistemazione e una nuova occupazione. A fine novembre del 2001 ci siamo trasferiti”.

 

La ragazza in questione si chiama Rebecca McKay White ed è la tua accusatrice.

 

“Sì, è lei. Nel maggio del 2002 io ho cominciato ad avere un interesse per un’altra collega e ho chiesto a Rebecca di accelerare i tempi per trovare un’altra casa e un altro lavoro. Nel frattempo la Dole, infatti, non aveva rispettato i patti perché mi volevano dare una promozione in contanti ma senza darmi azioni della società. Nel frattempo io stavo cominciando a vendere un software e la società che lo stava vendendo aveva trovato dei grossi clienti in Europa. Così ho deciso di lasciare l’America e di ritornare in Europa per iniziare una carriera da libero professionista, anche perché avevo sempre pensato di tornare prima o poi in Italia. Insieme a tre amici di diverse nazionalità (un canadese, un belga e un sudafricano) ci siamo buttati nel mondo delle prenotazioni alberghiere aprendo una società con sede a Gibilterra. Nel 2004 mi ingaggiò una società irlandese. Mi diedero un contratto da nababbo per portare dietro la mia tecnologia. Nel luglio del 2004 andai da Dublino a Dusseldorf, in Germania, per un incontro d’affari insieme ai responsabili di questa società irlandese. Arrivati all’aeroporto tedesco, al controllo passaporto mi hanno chiesto di andare in una stanza separata. Lì mi hanno comunicato che ero in arresto”.

 

Come hai reagito?

 

“E’ stato davvero un colpo, non mi aspettavo nulla. E’ stata una cosa drammatica, anche perché avevano emesso un ordine di cattura “red alert”. Significa che ero stato descritto come persona armata e pericolosa. Insomma, non mi hanno trattato molto delicatamente, ecco”.

 

Quando hai scoperto di che cosa eri accusato?

 

“All’inizio non capivo. Solo tre giorni dopo ho potuto vedere e comunicare con qualcuno. Per più di 72 ore non ho potuto telefonare a nessuno. Poi ho saputo che c’era un’accusa della White, e sono letteralmente caduto dalle nuvole. Alle prime udienze con il giudice che doveva confermare l’arresto le accuse sono subito cominciate a sembrare ridicole. Gli Stati Uniti avevano mandato in Germania solo una denuncia sommaria, neppure firmata. La procura tedesca ha inviato una rogatoria internazionale chiedendo se c’erano altre evidenze contro di me e lì è cominciato l’insabbiamento. Gli americani hanno detto che avevano solo quella e hanno cominciato a fare pressione politica per farmi estradare”.

 

In realtà esistevano, eccome, altre evidenze. Tutte a favore di Carlo. Il 18 luglio 2002, infatti, Rebecca White denuncia di essere stata assalita e stuprata due settimane prima. La polizia fotografa la presunta vittima che, a quella data, non presenta alcun livido al volto. Il 22 luglio, la White si fa visitare da un medico in Oklahoma, datore di lavoro della sua migliore amica. Il dottore evidenzia “ecchimosi intorno agli occhi dove lei è stata presa a pugni”. Lividi dei quali non c’era alcuna traccia quattro giorni prima. Successivamente, la White retrodata l’aggressione al 29 giugno, per sostenere che i lividi avevano avuto il tempo di sparire. E allora quali lividi ha visto il dottore? Il 5 novembre un altro medico segnala “costole rotte e occhi molto neri”, quattro mesi dopo la presunta violenza. Tempi al di fuori di qualsiasi logica. E questo è solo un esempio.

 

“Ci siamo procurati molte evidenze insieme all’associazione “Prigionieri del silenzio”, sono venute fuori delle discordanze incredibili. La donna diceva che l’avevo rapita e sequestrata per vari giorni. Ma abbiamo tirato fuori i fogli presenza della Dole nei quali io risultavo presente al lavoro in quei giorni e allora lei ha cambiato versione dicendo che la tenevo sequestrata solo di notte, legandola e poi di giorno la lasciavo libera e me ne andavo a lavoro. Senza contare che nella perquisizione a casa mia non avevano trovato nessun segno di lotta o di aggressione. E’ stato anche detto che io costringevo la donna a guardare immagini pornografiche sul mio computer, ma il mio pc non è stato neppure preso o controllato”.

 

Perché Rebecca White poteva avercela con te e inventare una storia del genere?

 

“Lei ha un profilo psicologico molto debole, ma purtroppo anche le evidenze mediche a carico della donna sono state escluse dal processo. Nel 1995 ha fatto un’accusa all’ex marito molto simile a quella rivolta contro di me. All’udienza per il divorzio non le fu nemmeno permesso di testimoniare perché era stata ricoverata per due anni e non era considerata in grado di presentare una testimonianza credibile. Questa diagnosi psichiatrica non è mai stata ribaltata e quindi questa donna non avrebbe mai dovuto testimoniare in nessun processo senza una certificazione medica che cambiasse referto. Il mio sospetto è che lei all’inizio fosse ancora innamorata di me e abbia pensato che il modo di trattenermi fosse quello di accusarmi di violenza domestica. Poi perà la cosa si è ingigantita, perché lei ha parlato di violenza inaudita, non riscontrata in nessuna evidenza medica. Eppure per parecchio tempo ha continuao a cercare medici compiacenti che continuassero a emettere certificati segnalando postumi di questa ipotetica aggressione. Ha presentato denuncia contro di me dicendo che la chiamavo dall’Europa per minacciare lei e la sua famiglia. E la polizia non ha neppure mai fatto una traccia telefonica. Ha solo accumulato queste evidenze una dopo l’altra. Si arriva all’assurdità che lei sostiene che nelle settimane successive allo stupro abbiamo avuto altri rapporti sessuali consenzienti”.

 

Senza contare che la California prevede un fondo pensionistico per chi denuncia gli stupratori. Ti sei mai dato una spiegazione sul motivo per il quale è potuta succedere una cosa del genere in un paese come gli Stati Uniti?

 

“Ma purtroppo negli Stati Uniti casi come questo ce ne sono parecchi. E’ un’idea mia, però credo che la spiegazione di base sia che nel sistema americano succeda qualcosa di molto particolare quando c’è un accusato. Quando c’è un possibile sospetto i procuratori, invece di investigare, preferiscono adottare una strategia meno costosa dal punto di vista economico. Cercano di farti arrestare e di rimuoverti la possibilità di uscire su cauzione. Poi utilizzano il carcere come strumento per spingerti al patteggiamento. Ci sono numeri stratosferici di cause che finiscono con il pattegguamento, quasi il 99%. Credo sia un modo per snellire la giustizia. Quando hanno cominciato a guardare un po’ meglio le evidenze secondo me si sono accorti che forse avevano fatto un errore. Mi hanno offerto il patteggiamento per assicurarsi che la storia sparisse”.

 

Patteggiamento che tu hai rifiutato.

 

Avevo tre capi d’accusa: sequestro, violenza domestica e stupro. L’unico che giustificava la richiesta di estradizione era lo stupro. Avrei dovuto confessare lo stupro e mi avrebbero dato una sentenza di tre anni scontata del 50%. In pratica dopo un paio di mesi sarei potuto uscire e tornare in Italia. Ma non volevo ammettere un crimine che non avevo commesso, così ho rifiutato”.

 

Non te ne sei mai pentito?

 

“Piuttosto che vivere con quella macchia addosso per tutta la vita ho pensato fosse meglio sfidare il sistema americano e la prigione. No, non ho rimorsi, non credo che avrei potuto vivere bene con me stesso se avessi accettato. Ho sofferto molto, ma ora posso camminare a testa alta. Col tempo sono riuscito a far venire fuori le vere prove e ora non ho paura di dire a nessuno che il criminale non sono io, ma che era qualcun altro”.

 

Com’è stata l’esperienza in carcere, dove sei rimasto quasi otto anni?

 

“Pensavo di essere finito in inferno nel carcere di Dusseldorf e invece il vero inferno era negli Stati Uniti. La prigione americana è una cosa indescrivibile. Cose del genere uno se le aspetta in posti del terzo mondo. Il carcere americano è super finanziato, tecnologicamente avanzato, ma è mostruoso. Ci sono due fenomeni incredibili: la violenza e il sovrappopolamento, che causa disservizi sanitari e igienici. In 11 mesi di carcere ho visto due risse, ad Avenal ne ho viste due il pomeriggio che sono arrivato prima di cena. La violenza lì è un fatto quotidiano, e dopo un po’ ci si abitua. Con gli anni si diventa impermeabili a queste cose, non ci si indigna più. E mi vergogno di questo. I poliziotti carcerari vanno in giro con due bombole di spray urticante, una granata di lacrimogeno e il terribile “bone crash” (spezzaossa, ndr), un bastone a scatto con una testa di piombo. A vederli sembrano in tenuta antisommossa e invece è il loro abituale abbigliamento. Ogni volta che ti sposti da una parte all’altra del carcere poi ti fanno spogliare nudo, allargare il fondoschiena e tossire per vedere se hai della merce di contrabbando”.

 

Sei mai rimasto coinvolto in una rissa?

 

“Sì, ho subito tre aggressioni, fortunatamente non troppo letali anche se in una di queste ho contratto l’epatite C. Giravano un sacco di malattie, anche a causa dell’affollamento. Avenal è progettato per contenere al massimo 2300 persone, nel 2008 invece eravamo in 8 mila”.

 

L’Italia come si è comportata a proposito del tuo caso? Qualcuno delle istituzioni ha provato ad aiutarti?

 

“Io ho chiesto a lungo l’aiuto alle istituzioni italiane. C’è un episodio che fa capire tutto, il modo in cui l’Italia si è approcciata alla vicenda. Il console a Los Angeles ha continuato per tutto il processo a confortare la mia famiglia dicendo che la donna si contraddiva e di stare tranquilli che sarei stato assolto. Poi, quando arriva la condanna scrive un’informativa alle istituzioni italiane allineandosi al verdetto e dicendo che è vero che la White non era attendibile ma che alla fine dei conti si erano presentate molte mie ex ragazze a descrivermi come un uomo violento. Una bugia bella e buona. Sicuramente gli Usa si sono comportati in maniera opposta per esempio nel caso di Amanda Knox. Hanno criticato il modo di trattare le evidenze, nel mio caso invece non c’era proprio nessuno che le raccoglieva. Le istituzioni italiane non hanno fatto nulla, ora mi sembra che qualcosa si stia muovendo e al ministero degli Esteri si sono detti disponibili ad avviare le pratiche per una rogatoria internazionale sulle certificazioni falsate. Anche perché questi documenti non sono stati trovati da un detective privato, ma sono evidenze registrate e tenute nascoste dalla polizia di Ventura. E ho anche la coscienza di essermela cavata con poco. In questo momento ci sono dei connazionali che sono in America a scontare pene di trent’anni e che probabilmente sono stati incastrati nella stessa maniera. Senza evidenze, con procedimenti giudiziari assurdi e senza un qualsiasi appoggio da parte dello Stato italiano. A differenza di altri paesi, non siamo abbastanza attenti a controllare quello che succede ai nostri connazionali, soprattutto in fase istruttoria. I nostri consolati dovrebbero avere delle persone, degli avvocati possibilmente valutati sotto il profilo etico, che controllino le indagini e tengano i contatti con le famiglie”.

 

Hai intenzione di denunciare qualcuno?

 

“Dovrebbe esserci già una denuncia attiva contro i medici presentata lo scorso anno alla Procura di Pistoia da parte di un comitato formato spontaneamente a Montecatini da trecento o quattrocento persone. Dovremmo presentare presto denuncia, penso a Roma, per il mancato intervento in fase della mia estradizione e per il disinteresse verso i crimini che ho subito, dal razzismo alla tortuta. Poi presenteremo simili denunce anche in Germania per la leggerezza che hanno avuto le istituzioni tedesche nell’estradarmi. Ma non sono neppure io che accuso qualcuno, sono i documenti stessi della procura americana a farlo”.

 

Com’è stato a livello personale il ritorno in Italia?

 

“Molto brutto, perché sono tornato da sconfitto. Dopo un libro, scioperi della fame e una lunga battaglia contro le bugie sono comunque rimasto in prigione per tutto questo tempo. Essere considerato, a torto, uno stupratore è una cosa orrenda, così come volare incatenato su un volo di linea. Quando sono arrivato a Fiumicino (il 15 febbraio 2012, ndr) ho anche scoperto che la mia compagna Katia aveva una relazione con un’altra persona da circa un anno. Non me l’avevano detto per evitarmi una crisi, ma lei aveva avuto un crollo psicologico un paio di anni fa e aveva deciso di interrompere il nostro rapporto, anche se ancora oggi mi aiuta molto a portare avanti la mia battaglia. In questi due mesi ho avuto un crollo emotivo, anche perché Katia era l’ultima cosa che mi era rimasta. Mi sono reso conto di aver perso tutto, ma in futuro voglio lottare. E non smetterò di farlo fino a quando non avrò, almeno parzialmente, giustizia”.

 

(Fonte: Lorenzo Lamperti, Affaritaliani.it, 11 maggio 2012)