L'errore giudiziario materia d'esame (di R. Borruso)

Il tema dell’errore giudiziario è comune a tutte le applicazioni del diritto in ogni parte del mondo: non riguarda, quindi, solo il diritto penale (anche se in esso ha una particolare rilevanza, incidendo sul bene supremo della libertà personale e provocando l’afflittività della pena penale con conseguenze irreparabili), né soltanto in Italia né soltanto gli avvenimenti più recenti (il Cristianesimo, da un certo punto di vista, è tutto originato da un errore giudiziario).

Dato il suo carattere generale – e proprio in relazione ad esso – mi permetto di esporre qualche considerazione in merito, suggerita da una lunga esperienza giudiziaria, sia pure prevalentemente civilistica.

L’errore giudiziario scandalizza solitamente l’opinione pubblica come la scandalizza la pluralità dei gradi di giudizio (primo grado, giudizio di appello, giudizio di Cassazione) e il non raro esito diverso di essi. Non pochi manifestano il timore che ciò possa essere provocato da corruzione, da favoritismi o da persecuzioni o, comunque, da colpe dei magistrati.
Non è così, per lo meno nella stragrande maggioranza dei casi. Anche il cosiddetto “uomo della strada” deve comprendere (e gli attuali mass media possono aiutarlo molto in tal senso) che l’applicazione della legge è molto più difficile e complessa di quanto comunemente si creda. Essa, a differenza di tutte le altre professioni, involge innanzitutto capacità molto diverse tra loro pur da possedere congiuntamente per svolgere le professioni forensi (magistratura, avvocatura):
– quella di saper interpretare e coordinare le norme di legge;
– quella di saper accertare i fatti (ai quali applicare, poi, le norme);
– quella in definitiva di saper valutare le persone (che quei fatti commettono o riferiscono).
L’interpretazione e il coordinamento delle norme di legge hanno ad oggetto regole e si effettuano esse stesse secondo determinate regole (ancorché non così rigorose come quelle che si incontrano nel campo delle cosiddette scienze esatte). È proprio a tali regole – ed esclusivamente ad esse – che ci si riferisce quando si parla di “scienza del diritto” o di studi universitari di legge.
Saper accertare i fatti, invece, non forma oggetto degli studi giuridici: esiste sì il diritto processuale, ma – per quel che qui interessa – esso riguarda soltanto se, quando e come possono essere raccolte le prove dei fatti, non già come devono essere valutate. Il diritto processuale, ad esempio, fissa le regole per l’assunzione delle prove testimoniali (se e quando siano ammissibili, con quali modalità e da parte di chi), ma non detta neppure una norma (anche a livello di semplice criterio di massima) la cui applicazione porti a ritenere vera o falsa la testimonianza resa. Lo stesso è a dirsi per gli indizi: la legge si limita soltanto a stabilire che da un fatto noto si può presumere un fatto ignoto in base alla id quod plerumque accidit e che, di regola, le presunzioni devono essere gravi, precise e concordanti, secondo il “prudente” apprezzamento del giudice, al di là di questo non va.
Tutto ciò risponde a un preciso orientamento del legislatore moderno in tutti i popoli civili: quello di affidare l’accertamento dei fatti al libero convincimentodel giudice e, per contrapposto, di bandire le cosiddette “prove legali”, cioè quelle che costringono il giudice a ritenere un fatto vero o falso a seconda di determinati eventi (nel basso Medioevo, i cosiddetti “giudizi di Dio”, consistenti nel superamento o meno di determinate difficoltà da parte del soggetto sottoposto al giudizio). Solo nel diritto civile ci sono talune “prove legali”, giustificabili in base al principio della libera disponibilità dei diritti patrimoniali o al principio della necessità di rendere certi determinati rapporti (per esempio: confessione, giuramento decisorio, presunzioni iuris de iure, cioè che non ammettono la prova contraria).
L’accertamento dei fatti, dunque – non avvenendo in base a regole cogenti che consentano di concludere se essi siano veri o falsi – non implica attività “scientifica” in senso proprio, ma “empirica” cioè fondata più che altro sui dati dell’esperienza, del buon senso, della pratica: cioè, su doti che si acquistano più con l’età, la maturità, l’esercizio nel contatto umano, che non con lo studio (o per lo meno con lo studio del diritto inteso come complesso di regole). In altri termini, il principio del libero convincimento del giudice, se da un lato preserva dal pericolo di una meccanica deduzione di un fatto da un altro fatto (e dalle intollerabili che tali deduzioni possono comportare), dall’altro lato comporta il pericolo di una valutazione soggettiva dei fatti non rispecchiante la cosiddetta “coscienza collettiva”. E ciò spiega perché in molti paesi del mondo (tra i quali l’Italia), i giudizi sui fatti più gravi (quali ad esempio gli omicidi) vengono demandati ad una giuria popolare, costituita, quindi, non da magistrati e neppure da persone che siano comunque da considerarsi come “tecnici del diritto”, ma da cittadini qualunque (purché, ovviamente, di buona condotta e con un grado, sia pure non particolarmente elevato, di cultura generale).
E’ ben vero che, almeno in Italia, le corti d’assise sono costituite non solo da “giurati”, ma anche da due magistrati di professione e che, comunque, tutte le sentenze devono essere motivate, ma è anche vero che la composizione promiscua delle corti è soggetta a molte critiche (ritenendosi, specie nel mondo anglosassone, che il magistrato di professione debba sì dirigere il dibattimento, ma, in nessun caso, partecipare alla decisione riservata ai soli giurati) e che la motivazione della sentenza, per quanto persuasiva possa essere, non sempre riesce a dimostrare l’assoluta impossibilità del contrario dei fatti in essa affermati. Voglio, cioè, dire che di uno stesso fatto possono, talvolta, darsi più versioni senza che in nessuna di esse si possa cogliere un vero e proprio errore di logica (quale, prima tra tutte, la contraddizione) o la mancata risposta a un quesito di decisiva importanza (unici casi, questi, nei quali la corte di Cassazione può “cassare” – cioè annullare – la sentenza impugnata).
In altri termini (più semplici), ritenere se un testimone abbia consapevolmente detto o no il falso, ovvero se ciò che ha riferito (sia pure in buona fede) corrisponda all’effettiva verità potendo essere frutto di alterazioni dovute al passare del tempo, ai falsi ricordi, alle emozioni, alle distrazioni, alla psicologia del testimone, come pure – per ciò che concerne specialmente gli indizi – escludere la verità di un fatto solo perchè inverosimile e determinare la soglia di verosimiglianza dei fatti, non costituisce oggi applicazione di sapere scientifico, sicché il risultato di essa non si presta ad essere considerato giusto o errato sino a che non venga dato, sempre sul piano empirico, la prova del contrario (è impressionante constatare che, da un lato, accadono non raramente fatti inverosimili e che, dall’altro lato, il criterio della verosimiglianza non può venire accantonato a meno che non si voglia rinunciare a giudicare). Ecco perché l’errore giudiziario (nella maggior parte dei casi dovuto proprio a valutazioni di testimonianze e di indizi rivelatisi poi inconsistenti) è, stando così le cose, ineliminabile, purtroppo, in linea di principio.
La coesistenza di giudici professionisti e di giurati popolari, digiuni di diritto, è la prova più evidente e drammatica di un problema che, nel corso della storia e dovunque, non ha ricevuto una risposta soddisfacente: come si accertano i fatti e come si valutano le persone? Che è come dire se sia possibile agli umani accertare, senza tema di sbagliare, la verità e di leggere nella mente del prossimo.

A questo punto si impone una riflessione conclusiva e decisiva. Se è vero che lo studio del diritto (inteso come complesso di norme) non giova in maniera determinante alla scoperta della verità dei fatti;
– se è vero che, d’altra parte, al magistrato come all’avvocato è richiesto non solo di saper interpretare le norme ma anche di saper scoprire la verità, non sarebbe opprtuno (se non addirittura necessario) che l’uno e l’altro studiassero (all’università o in prosieguo) tutte quelle scienze che, seppur non possono portare all’accertamento automatico dei fatti “storici”, possono però affinare nell’esercizio di una siffatta, difficilissima attività, quale, ad esempio, psicologia forense (materia di studio che esiste già) e, ultima non ultima, “storia degli errori giudiziari” (materia che non esiste ancora, ma il cui studio – ne sono profondamente convinto – potrebbe molto giovare ai giovani magistrati o avvocati). E non solo di materie “tecniche” si dovrebbe trattare, ma più in generale di tutte le materie umanistiche che meglio servono a comprendere gli uomini e i fatti che essi compiono: quindi la storia, la letteratura (con particolare riguardo ai romanzi e al teatro di prosa), la filosofia, la psicologia, l’informatica (per la differenza tra uomo e computer) (nota 3: la vera differenza, perché esistono anche uomini-computer, purtroppo). Per altri aspetti potranno rivolgersi a consulenti tecnici (come, ad esempio, nel campo specifico delle indagini di polizia e della medicina legale), ma anche di queste materie dovrebbero conoscere almeno quel tanto che permetta loro di comprendere quando e in quali termini chiedere la loro collaborazione.

Concludendo: la facoltà di Giurisprudenza dovrebbe, per magistrati e avvocati, chiamarsi – e diventare – facoltà di Giurisprudenza e di Scienze umane.Paradossalmente, se proprio si dovesse scegliere – meglio forse, per avere un ottimo magistrato o avvocato – meno studio del diritto e più studi umanistici, più acquisizione di esperienze varie di vita prima di indossare la toga, e, forse, necessità di test attitudinali per verificare il buon senso, l’equilibrio di chi è chiamato a compiti così gravi. Paradossalmente mi sembra meo grave l’errore di diritto (cioè l’errore sull’interpretazione delle norme, sempre riparabile in Cassazione e al fine esclusivo di evitare il quale tende la massiccia preparazione giuridica degli aspiranti alla magistratura e all’avvocatura), che non l’errore i fatto (cioè l’errato accertamento dei fatti ai quali poi applicare le norme) e – tanto per chiudere con un battuta – meno grave non conoscere una “leggina” che non aver mai letto le opere di Dostoevskij.Paradossalmente, “l’uomo di legge” dev’essere più portato al dubbio che non alla certezza.