
Lo arrestarono con l’accusa di essere l’autore di un delitto commesso trent’anni prima, di cui si parlò a lungo quando avvenne, nel 1987: l’omicidio di Lidia Macchi, una studentessa ventenne ritrovata morta in un bosco. Lo condannarono all’ergastolo sulla base di soli indizi e suggestioni. Ma lui era innocente. E ci sono voluti altri due gradi di giudizio, oltre a 1286 giorni di ingiusta detenzione, prima che la verità venisse acclarata definitivamente. Il protagonista di questa incredibile vicenda è Stefano Binda, vittima di un errore giudiziario che ha rischiato di rovinargli per sempre la vita. Ma che solo grazie alla tenacia dei suoi due avvocati – Patrizia Esposito e Sergio Martelli – ha potuto essere catalogato tra gli errori giudiziari, con tanto di risarcimento per ingiusta detenzione nei confronti del suo protagonista.
La storia di Stefano Binda è dolorosa e complessa. Arrestato a trent’anni di distanza da un omicidio che aveva sconvolto l’Italia, perché gli inquirenti si erano convinti che convinti che fosse lui l’assassino, in base soprattutto a una perizia calligrafica. E invece si sbagliavano: non era suo il Dna ritrovato sul corpo della vittima. E l’alibi fornito (nei giorni del delitto Binda era in vacanza in una nota località sciistica della alpi piemontesi) non è stato mai smentito da prove certe.
L’omicidio di Lidia Macchi

L’omicidio di Lidia Macchi fu commesso il 5 gennaio 1987 vicino a Cittiglio, un piccolo centro in provincia di Varese. La ragazza, 20 anni, era stata a trovare un’amica in ospedale. Rientrando a casa, aveva fatto salire in macchina il suo assassino che, prima di ucciderla, l’aveva condotta in un boschetto della zona, violentata e infine trafitta con ventinove coltellate. Il cadavere fu ritrovato dagli investigatori due giorni dopo.
Dopo quasi 30 anni durante cui le indagini non erano approdate a nulla, l’inchiesta sull’omicidio di Lidia Macchi arriva a un punto di svolta il 15 gennaio 2016: Stefano Binda, all’epoca 49 anni, viene arrestato con l’accusa di omicidio volontario aggravato. L’uomo era stato per due anni compagno di liceo classico di Lidia e come lei militante di Comunione e Liberazione. Alla base dell’arresto, un confronto calligrafico tra la sua calligrafia e quella di una lettera anonima recapitata alla famiglia della ragazza uccisa il 10 gennaio 1987, nel giorno dei funerali di Lidia.
Il processo a Stefano Binda

Il 24 aprile del 2018, il processo di primo grado davanti alla corte d’assiste di Varese si conclude con la condanna all’ergastolo per Stefano Binda: secondo i giudici, l’imputato uccise Lidia Macchi «per procurarsi l’impunità dal reato di violenza sessuale su di lei commesso». La sentenza fu però ribaltata poco più di un anno dopo, il 24 luglio 2019, dalla Corte d’assise d’appello di Milano: Binda venne assolto e scarcerato. Nelle motivazioni della loro sentenza, i giudici di secondo grado parlarono di «vero e proprio deserto probatorio».
Dopo una condanna all’ergastolo in primo grado e un’assoluzione piena in appello, ma soprattutto dopo 1286 giorni di ingiusta detenzione pari a oltre tre anni e mezzo di carcere, il 28 gennaio 2021 la Cassazione ha sancito la sua definitiva innocenza, respingendo il ricorso della procura generale contro la sentenza di secondo grado.
Il risarcimento a Stefano Binda
Il 12 ottobre 2022, l’ultimo atto: la quinta sezione della corte d’Appello di Milano ha accolto l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione presentata dai legali di Stefano Binda, oggi 53 anni, accordando un risarcimento di 303.277,38 euro. La procura generale si è però opposta alla decisione, impugnando il verdetto: essendosi avvalso della facoltà di non rispondere, Binda avrebbe indotto i giudici all’applicazione ingiusta della misura cautelare. Un concetto che però non è così acclarato in giurisprudenza: la recente normativa sulla presunzione di innocenza ha ribadito che non rispondere in sede di interrogatorio di garanzia è un sacrosanto diritto dell’indagato e non può dunque incidere sulla riparazione per ingiusta detenzione.
La parola è passata comunque alla Cassazione, da cui il 9 giugno 2023 è giunta una doccia gelata per Binda: i giudici della Suprema corte hanno infatti disposto l’annullamento dell’ordinanza di riparazione per ingiusta detenzione, rinviando alla Corte d’appello di Milano per un nuovo giudizio.
L’omicidio di Lidia Macchi è stato il primo caso in Italia in cui venne impiegato il test del DNA a scopo d’indagine. Tuttavia il confronto tra il materiale organico rinvenuto sul cadavere con quello di Binda e altri sospettati, non hanno mai portato ad alcun riscontro.
(fonti: Ansa, il Post, il Giorno, Tgcom24, Il Dubbio)
Ultimo aggiornamento: 12 giugno 2023
LA PUNTATA DI EGTALKS CON STEFANO BINDA ⬇️ ⬇️