Caselli: solo i poveracci vanno in carcere "Mafiosi e colletti bianchi restano fuori"

Non è vero che oggi il processo penale in Italia non funziona. “Funziona eccome, ma a senso unico: per i poveracci, i non garantiti, i ladri di polli e la povera gente”, dice Gian Carlo Caselli, direttore dell’amministrazione penitenziaria. E fornisce la prova della sua affermazione: “Le carceri sono piene di poveracci, diventando così un contenitore di emarginazione e marginalità, colme di tossicodipendenti e immigrati, anziché argine contro il crimine organizzato: ci sono pochi mafiosi e nessun colletto bianco”.
L’ex-procuratore di Palermo, chiamato dal ministro della Giustizia Diliberto a dirigere le carceri italiane, parla al congresso dei magistrati a metà mattinata, quando la sala è piena e la platea attenta. I giornali sono ancora sotto gli occhi di tutti, coi grandi titoli sui richiami del Papa contro l’uso della galera per far confessare gli imputati e altri mali della giustizia italiana.
Qualcuno, ascoltandolo, pensa che il discorso di Caselli – uomo di dichiarata fede cattolica, oltre che militante della corrente di sinistra “Magistratura democratica” – si inserisca nel solco di quel monito e voglia dare una sua lettura del discorso di Giovanni Paolo II. Ma il direttore delle carceri ha già detto queste cose una settimana fa, in un convegno a Bologna, e sul discorso del Papa non vuole intervenire. “I giornali ne hanno privilegiato alcuni aspetti – dirà poi nei corridoi dell’albergo che ospita le assise – e io non voglio partecipare a questo gioco perché sarebbe diminuente rispetto all’importanza del magistero pontificio”.
Poi però aggiunge: “Se dovessi parteciparvi, potrei sottolineare il punto in cui il Pontefice richiama la necessità che ciascun magistrato ponga al centro del suo lavoro la persona umana e la sua dignità; il che significa interpretare il ruolo senza burocratismi, rifuggendo da routine, cercando sempre il rispetto delle regole”.
Fuori da routine e burocratismi, allora, Caselli porta avanti la sua riflessione sul carcere, per dimostrare che la giustizia in Italia funziona a senso unico. Dopo aver svolto diversi lavori, “che mi hanno consentito di vedere diverse facce del servizio giustizia”, oggi l’ex-procuratore ricopre una carica che – dice – “mi fa vedere l’esito del servizio giustizia sul versante penale”.
E da quell’osservatorio accusa: “Il processo giusto è il processo uguale per tutti, mentre invece noi abbiamo più tipi di processi. Uno è quello per i non garantiti, i poveracci, e finisce sempre con la condanna; un altro è per i garantiti, e si articola diversamente a seconda che si tratti di briganti o di galantuomini. Per questi ultimi il processo è ricchissimo di sacrosante garanzie, che però dovrebbero esserci per tutti, le quali aprono spazi a nullità, dilazioni, con una prescrizione incombente che alla fine diventa impunità”.
Tornando alle condizioni in cui vive chi riempie le patrie galere – “il sovraffollamento è una pena accessoria”, e quindi ingiusta – Caselli ricorda che “la presenza di extracomunitari rappresenta circa il 30 per cento della popolazione detenuta, percentuale destinata a crescere rapidamente se teniamo conto che in alcune regioni gli extracomunitari costituiscono già la maggioranza degli ingressi in carcere. Persone di culture, religioni e valori diversi vengono immesse in un unico contenitore gestito da operatori ancora largamente impreparati”.
Infine racconta una storia, il direttore del Dap, “che chiarisce bene che cosa sia il carcere nel nostro Paese”. Quella dell’uomo che detiene il record di durata della detenzione in Italia. “Sta in prigione da 49 anni – rivela Caselli -, non è autore di una strage né un boss mafioso. E’ una persona che vive in una cella di un ospedale psichiatrico giudiziario dalla quale non vuole uscire e dalla quale nessuno ha il coraggio di farla uscire, per non farla morire su una strada. Questa persona non ha un parente disposto a riceverla, non ha un’istituzione alternativa, non ha un’assistenza adeguata esterna all’istituzione penitenziaria, e cosi’ sta trascorrendo il suo quarantanovesimo anno nell’istituzione penitenziaria”. Fuori dalla sala del congresso l’ex procuratore di Palermo – ancora immerso nei dibattiti e nelle polemiche sulla giustizia come quando guidava l’accusa contro Andreotti – commenta: “In altri Paesi su questo caso ci si interrogherebbe più di quanto ci si interroghi sui permessi ai detenuti o sulle vicende processuali di certo imputati eccellenti”.

(Fonte: la Stampa, 2 aprile 2000, Giovanni Bianconi)