Diallo, 2 mesi in carcere per burocrazia

Diallo, 2 mesi in carcere per un “disguido d’ufficio”

La burocrazia è uno dei problemi fondamentali della giustizia italiana. E non è raro che possa incidere anche sulla libertà di persone innocenti. Nel caso che vi stiamo per raccontare, è stata anche la causa prima di un’ingiusta detenzione, se non di un vero e proprio errore giudiziario. Proprio così: in Italia può accadere che, per quello che in burocratese viene ridotto a un banale “disguido d’ufficio”, un uomo sia costretto a passare in carcere senza motivo più di due mesi. È l’ennesima storia di malagiustizia: per colpa di un incredibile intreccio di coincidenze, unito a un pasticcio di competenze tra commissariato e questura, una comunicazione importantissima – perché certificherebbe che un condannato sta effettivamente rispettando l’obbligo di firma che gli è stato comminato – si perde nei meandri della burocrazia. Con il pessimo risultato di far risultare il protagonista di questa vicenda (Diallo A., un ventottenne immigrato regolare, originario della Guinea) responsabile di un reato che in realtà non ha mai commesso: “renitente all’obbligo di firma”, per usare l’arido linguaggio della polizia.

Un errore, dunque. Non proprio un errore giudiziario nel significato che il codice penale dà a questa locuazione, ma uno sbaglio che causa un danno non da poco a chi invece, avendo già sbagliato di suo e volendo regolare i propri conti con la giustizia, si ritrova invece a vestire un ruolo che non vorrebbe: quello di chi ricasca nell’errore di commettere un reato.

Nell’articolo del quotidiano milanese “Il Giorno” che riportiamo, viene ricostruita nei dettagli questa vicenda paradossale e per certi versi sintomatica dello stato della giustizia italiana.

 

Tutta colpa di una firma, e di dove la metti. Se in questura o se in un commissariato di zona. E, nel secondo caso, c’è il rischio che quella firma si perda, si vanifichi e vanifichi anche il suo effetto. E il firmatario torni spedito a San Vittore. Per due mesi e un tot, dove è tuttora: per un «disguido d’ufficio». Un errore. Non suo. Il suo, quello di spacciare piccole dosi, lo ha pagato con un patteggiamento a un anno di reclusione: per cui la pena di Diallo A. – 28enne della Guinea, lingua francese e poco italiano – l’1 luglio è stata commutata dal giudice Micaela Curami in obbligo di firma trisettimanale. Ma un «disguido d’ufficio» – come viene definito dal dirigente della Divisione anticrimine della questura, Maurizio Azzolina, in una nota di chiarimenti a Procura, direttissime, e legale che Diallo è riuscito finalmente a nominare, Antonio Nebuloni – lo ha rinfilato a San Vittore, dal 30 luglio fino a tuttora.

E il tuttora comprende un pasticcio di competenze su chi ha titolo, allo stato degli atti, sul detenuto, per cui la sua posizione potrebbe rimbalzare tra giudice del procedimento (nel frattempo divenuto definitivo), ufficio esecuzione della Procura e Tribunale di sorveglianza. A tutti i quali saranno destinate carte per la scarcerazione del ragazzo, che poi sarà in grado di valutare con il legale una causa per ingiusta detenzione.

La prima colpa di Diallo – regolare sul territorio italiano – è il piccolo spaccio, la seconda è di non avere una dimora certa. Questo sarebbe, stando alla ricostruzione imbarazzata fatta dalla questura, il motivo dell’equivoco.

Lui infatti  arrestato in flagranza il 24 maggio, condannato l’1 luglio a un anno e 1.200 euro di multa, ottiene la commutazione della pena in obbligo di firma, lunedì mercoledì e venerdì presso uffici della polizia giudiziaria. Dove regolarmente si presenta dall’1 al 6 luglio: nel commissariato di Porta Genova ma a insaputa degli uffici centrali. Così su Diallo, già il 6 luglio piomba la segnalazione della divisione anticrimine come renitente all’obbligo. Ragione per cui il tribunale il 10 luglio ripristina la custodia in carcere, e il 30 luglio – nel corso di un controllo – Diallo torna a San Vittore. Il giovane africano impiega oltre due mesi a capire e a trovare un legale che lo capisca. Quando l’avvocato Nebuloni ricostruisce che Diallo si è «presentato alla firma presso il commissariato Milano Porta Genova dall’1.7 al 30.7» e che «non ha mai saltato neppure un giorno del suo obbligo», la questura avvia una verifica interna. Da cui: «Effettivamente il Diallo in data 1.7.2015 si presentava» al commissariato Porta Genova; mentre «non risulta che si sia mai presentato negli uffici della questura dove era stato invitato…».

La trasgressione delle prescrizioni è segnalata «in quanto dalla interrogazione allo Sdi non risultava essere stato sottoposto agli obblighi di nessun ufficio di polizia…». E, non avendo il ragazzo eletto alcun domicilio certo, «l’ufficio» era nell’«impossibilità di avere uno specifico commissariato come riferimento», così unico strumento utile all’accertamento restava la banca dati che lo aveva invece obliato. Solo «dalla successiva consultazione degli atti dell’Archivio generale è stata rinvenuta la nota del commissariato di Porta Genova, diretta anche alla Divisione anticrimine per conoscenza». Ma «la citata nota per un mero disguido d’ufficio sfuggiva all’attenzione degli operatori e quindi veniva trattata alla stregua di tutta la corrispondenza che perviene per conoscenza all’ufficio arrestati ai soli fini dell’archiviazione». E fu così che Diallo – Guinea – fu archiviato a San Vittore.

 

(fonte: Il Giorno, 9 ottobre 2015)