Bruno Bellomonte
Innocente per la giustizia penale, ma ancora formalmente indagato nella stessa inchiesta da quasi 10 anni. Condannato a non riavere il proprio lavoro, «sospeso a tempo indeterminato» nonostante la legge preveda il reintegro immediato e l’impossibilità di essere puniti due volte per lo stesso reato. Senza stipendio, senza possibilità di trovarne un altro, esodato con la prospettiva di rimanervi a lungo.
La storia del ferroviere Bruno Bellomonte più che kafkiana è dell’orrore. L’orrore giudiziario di un paese che incarcera un innocente per 29 mesi e quando ammette di aver sbagliato non gli riconosce diritti fondamentali, come quello al posto di lavoro. Se Alberto Sordi in Detenuto in attesa di giudizio usciva psicologicamente distrutto dall’esperienza in carcere, Bruno è però ancora battagliero: «Non mi piegheranno mai», promette. Fedele alla sua militanza politica — è uno dei componenti di «A’ Manca pro S’Indipendentzia» (a Sinistra per l’Indipendenza) — e sindacale — è uno storico delegato del sindacato di base Ucs dei capostazione, questa mattina alle 11 si presenterà alla Corte di appello del tribunale del lavoro di Roma per tornare a chiedere di tornare subito al suo posto di capotreno a Sassari, lavoro che fa dall’ormai lontano 1977, dopo aver vinto il concorso, sebbene «dopo un’operazione al cuore (si è ammalato in carcere, ndr) mi tocca rimanere in ufficio», spiega. La battaglia odierna è contro Rfi — la parte di Fs che controlla la rete ferroviaria — che si appiglia a ogni cavillo — corroborata da sentenze e giudizi quanto meno discutibili — per liberarsi di un lavoratore scomodo e sindacalizzato, sul solco della tradizione aziendale portata avanti nel caso del macchinista Dante De Angelis e della strage di Viareggio.
La vicenda giudiziaria di Bruno è così complessa e lunga che si può solo riassumere, rischiando comunque di compiere errori e dimenticanze. Il suo «incubo» è iniziato quasi 10 anni fa. L’11 luglio 2006 Bruno viene arrestato con l’accusa di terrorismo e associazione eversiva. Si fa 19 giorni — assieme a 10 altri iscritti al suo movimento A’ Manca — per un’intercettazione ambientale a cui risulta estraneo per l’unico colpo di fortuna in questa lunghissima storia: il timbro sul passaporto dimostrano che lui quel giorno era in Tunisia. L’inchiesta denominata «Arcadia» è però la stessa che va avanti da nove anni e per cui risulta ancora indagato e dunque sospeso dal lavoro.
A tre anni dal primo arresto però Bruno viene nuovamente incarcerato il 10 giugno del 2009. L’accusa è sempre la stessa: terrorismo. E anche questa volta c’è di mezzo una intercettazione ambientale: in una osteria romana Bruno parla con un amico di come «prendere per i fondelli» il G8 previsto inizialmente sull’isola della Maddalena. «Scherzando e cazzeggiando — racconta — arrivammo a proporre di portare lì un battello pieno di merda o di usare dei modellini di elicottero per sorvolare la sede del G8». Gli inquirenti prendono le seconde parole alla lettera e sostengono che il gruppo criminale volesse attaccare i potenti della terra con elicotteri telecomandati.
Per questo si fa 29 mesi di carcere duro fra Siano (Catanzaro) e Viterbo, dove viene spostato per partecipare al processo che si svolge a Roma. «Siamo stati sparpagliati tutti lontano dalla Sardegna e tutte le istanze di scarcerazione mie e dei miei compagni vengono respinte, ma al processo non potevano non assolverci», spiega. L’assoluzione e la scarcerazione immediata arriva con la sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Roma del 21 novembre 2011. Vien poi prosciolto definitivamente e con formula piena dalla Corte di cassazione il 29 gennaio 2014.
Il problema è che l’inchiesta Arcadia va avanti e si è perfino allargata. A giugno scorso il pubblico ministero di Cagliari Paolo De Angelis ha ottenuto il rinvio a giudizio per Bruno e 17 indagati di A’ Manca che, secondo lui, insieme a due gruppi di anarchici e di comunisti indipendentisti, i Nuclei proletari per il comunismo (Npc) e l’Organizzazione indipendentista rivolutzionaria (Oir) erano impegnati in attentati esplosivi, intimidazioni e attività di pianificazione terroristica.
Il quadro probatorio contro Bruno è debolissimo anche perché, nonostante le richieste, i suoi avvocati — in 9 anni — non sono mai riusciti ad avere gli originali delle altre intercettazioni che lo riguardano.
Un’inchiesta senza fine — serviranno anni per chiuderla — che consente però a Rfi — e a un giudice — di non ridare a Bruno il suo sacrosanto posto di lavoro. L’azienda infatti dopo il rinvio a giudizio lo ha immediatamente «sospeso a tempo indeterminato» in attesa della chiusura del procedimento penale, concedendogli solo due mesi di stipendio: da agosto è senza alcuna entrata. La misura della sospensione è una vera beffa: gli impedisce di chiedere la disoccupazione, di avere il Tfr e di cercare un altro lavoro. «Sono in limbo senza fine», sintetizza Bruno. L’azienda infatti sostiene di non riuscire a mettersi in contatto con la Procura di Cagliari per chiarire la sua posizione e nel primo ricorso d’urgenza per mettere fine alla sua sospensione il giudice del Lavoro dà ragione a Rfi sostenendo che il suo comportamento è legittimo. Sebbene Bruno sia stato sospeso due volte per lo stesso procedimento, violando un elementare principio del diritto.
Ma la cosa più incredibile di tutta la vicenda riguarda l’appello che Rfi ha presentato contro il reintegro di Bruno dopo la sua assoluzione.
Se l’articolo 102 del codice di procedura penale prevede il reintegro nel posto di lavoro per ingiusta detenzione «qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di “non luogo a procedere” ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione», il licenziamento del 2009 è prima stato sospeso il 16 marzo 2012 e poi annullato il 26 marzo 2013. I legali di Rfi hanno però impugnato la sentenza e un’udienza sul ricorso è prevista a marzo.
Difeso dagli avvocati Simonetta Crisci e Pierluigi Panici — che nel ricorso ricorda la «disumana ferocia» della vicenda e «l’assurdità del processo», il fatto che si tratti «dell’unico caso di un terrorista a piede libero» e che in realtà l’accusa derivi solo «dall’adesione alla ideologia indipendentista» comune «all’80% dei catalani e al 46% degli scozzesi», anch’essi «terroristi» — Bruno e sua moglie (in pensione anticipata e dunque decurtata) tirano avanti con la solidarietà dei compagni ferrovieri. Come nel caso di Dante De Angelis — licenziato due volte per aver denunciato la carenza di sicurezza sui binari — e di Riccardo Antonini — licenziato per una consulenza tecnica fatta per i familiari delle vittime della strage di Viareggio — è stata aperta una «Cassa di Solidarietà Ferrovieri» che si può sottoscrivere versando sul conto corrente Postale N° 71092852 oppure tramite bonifico bancario o postale su IBAN: IT10N0760103200000071092852, specificando nella causale: «Sussidio di solidarietà per Bruno Bellomonte».
Ciò che colpisce in Bruno è la dignità e la tranquillità con cui spiega e analizza la sua situazione: «Quello che mi è capitato è allucinante, ma io posso solo continuare a lottare per non dargliela vinta. Quando entro nei tribunali ormai mi sembra di essere a casa mia». Continua anche la sua battaglia sindacale e politica: «Quando ero in carcere mi hanno candidato a sindaco di Sassari e ho preso 1.300 voti dopo che nel 2006 più di seimila persone sono scese in piazza per dare solidarietà a noi di A’ Manca. Il sentimento indipendentista è più forte che mai».
Da dieci anni a questa parte le cose sono peggiorate: «Il mio caso è uno schiaffo al diritto, io sono un semplice lavoratore che non può difendersi. Ma Renzi vuole fare peggio col Jobs act e i padroni, le aziende sentono l’aria che cambia e affondano il coltello. Rfi è un’azienda pubblica e questa è un’aggravante». Bruno riesce anche a scherzarci perfino su, arrivando a ridere quando racconta che una ulteriore beffa giudiziaria potrebbe ancora capitargli: «Paradossalmente potrei vincere sulla sospensione, ma essere nuovamente licenziato se l’azienda vincesse l’appello. Ma anche in quel caso continuerei a lottare».
(Massimo Franchi, Il Manifesto, 3 febbraio 2015)