E' morto Gerry Conlon, uno dei più clamorosi errori giudiziari della Gran Bretagna

Gerry Conlon

Gerry Conlon, l’uomo imprigionato per quindici anni per un attentato dell’Ira che non aveva commesso, scrisse in un libro di memorie di non essere mai riuscito a superare il suo dramma giudiziario: «La tragedia non mi ha abbandonato». Segnato indelebilmente dagli anni in cella e dal torto subito, è morto di cancro nella sua casa di Belfast all’età di sessant’anni.

 

Conlon è stato protagonista di uno dei più clamorosi errori giudiziari nella storia del Regno Unito. Insieme ad altre tre persone, venne arrestato e condannato all’ergastolo per l’attentato del 1974 a un pub di Guildford, vicino Londra, in cui morirono cinque persone e sessantacinque rimasero ferite. Di lì a poco, altre sette persone furono arrestate perché ritenute complici, tra cui il padre di Conlon, Giuseppe, fermato mentre si recava a Londra per assistere il figlio.

I «Quattro di Guildford» (oltre a Conlon, Paul Hill e Paddy Armstrong di Belfast e una donna inglese, Carole Richardson) dovettero attendere fino al 1989 perché la Corte di Appello riconoscesse la loro innocenza. Per i presunti complici il proscioglimento arrivò nel 1991.

 

La vicenda di Conlon, raccontata nel film «Nel nome del padre» con Daniel Day-Lewis, è figlia del suo tempo, uno dei periodi più bui nella storia recente del Paese. Erano anni di lotta feroce tra le forze britanniche e l’Ira, l’Esercito Repubblicano Irlandese che si batteva contro la corona per il ricongiungimento delle contee del Nord a Dublino. Gli attentati si susseguivano: una bomba su un pullman delle forze armate causò una dozzina di vittime nel febbraio del 1974; nel novembre di quello stesso anno, 21 persone morirono in un attentato in un pub di Birmingham. I cittadini chiedevano giustizia, il Parlamento reagiva con leggi speciali anti-terrorismo e la polizia era sotto pressione per trovare i colpevoli, in un clima di tensione e paranoia.

Conlon, all’epoca 20enne sbandato, era il colpevole perfetto. Dal momento dell’arresto, non smise mai di professare la sua innocenza. La confessione fu ottenuta sotto tortura e prove che avrebbero potuto scagionare il gruppo furono tenute segrete. Quando, finalmente libero, uscì dal tribunale di Londra, braccia alzate, le sorelle al suo fianco, Conlon aveva la rabbia negli occhi: «Sono stato imprigionato per un crimine che non ho commesso, un crimine di cui non sapevo nulla. Sono completamente innocente». Per suo padre, il rovesciamento della sentenza arrivò troppo tardi. Giuseppe, che soffriva di problemi cardiaci, morì in prigione nel 1980.

 

Sarebbero passati ancora molti anni per le scuse ufficiali da parte delle autorità: nel 2005 Tony Blair parlò di «ingiustizia e tragedia» e disse che le famiglie coinvolte meritano di essere «scagionate completamente e pubblicamente». I veri colpevoli dell’attentato non sono stati trovati. Negli anni successivi al rilascio, Conlon si è sottoposto a trattamenti psichiatrici per superare il trauma. Ha avuto crolli nervosi, problemi di alcol e droga, ha tentato il suicidio. «Non solo dovevamo sconfiggere il sistema giudiziario, dovevamo sopravvivere in prigione. La nostra realtà era un incubo», scrisse sul «Guardian». La sua famiglia ha detto che la vicenda «ha aperto gli occhi del mondo di fronte all’ingiustizia. Gerry ci ha dato forza nell’ora più buia».

 

(fonte: Alessandra Rizzo, La Stampa, 22 giugno 2014)