L'incerta prova scientifica

Oggi i giudici di Perugia si riuniranno in camera di consiglio. Questa sera, forse nella notte, dovremmo conoscere la sentenza. Raramente un epilogo giudiziale è stato tuttavia così aperto, così incerto.

Tutti abbiamo seguito con attenzione il processo. Un processo indiziario nel quale c’è stata un’accanita, a volte violenta battaglia giudiziaria. Un processo nel quale scenari, prospettive, quadro e dettagli sono sovente cambiati. Un processo in cui, ancora una volta, come in altri processi per delitti di sangue, un ruolo di rilievo ha avuto la «prova scientifica», ma nel quale essa, ancora una volta, si è rivelata fonte di dubbi piuttosto che di certezze.

Non credo sia il caso di ripercorrere, qui, la storia del processo o di riassumere gli elementi a carico o a discarico attorno ai quali hanno discusso accusa e difese. Lo hanno già ampiamente fatto, nei giorni scorsi, le cronache giudiziarie. Mi preme, piuttosto, cogliere l’occasione dell’attesa di una importante sentenza per riproporre vecchi interrogativi in materia di processo indiziario e porre gli interrogativi nuovi suscitati da vicende giudiziarie il cui epilogo, in un modo o nell’altro, non ha del tutto convinto.

Il processo indiziario è un processo nel quale non esiste una «prova decisiva» a carico dell’imputato, ma nel quale a suo carico è emersa una pluralità di elementi indizianti che, nel loro insieme, fanno ritenere che egli sia colpevole. La legge stabilisce che gli indizi possono essere considerati prova, e legittimare la condanna, se sono sufficientemente numerosi, se sono univoci e se sono concordanti.

La legislazione penale italiana prevede tuttavia anche (norma approvata qualche anno fa) che «nessuno può essere condannato se non esiste prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio della sua colpevolezza». È un segnale forte di garanzia. Per potere condannare, nel nostro sistema giuridico, occorre, cioè, avere raggiunto l’assoluta certezza della responsabilità penale dell’imputato. Se un dubbio, anche minimo, permane, si deve assolvere. Ciò significa che gli indizi, per consentire una condanna penale, devono essere talmente forti, talmente univoci, talmente concordanti, da garantire la totale certezza della colpevolezza. Se non l’assicurano, ed i giudici cionondimeno condannano, violano la legge.

Che faranno, allora, i giudici di Perugia? Ovviamente non lo so. So soltanto che, per legge, potranno condannare i due ragazzi soltanto se gli elementi sottoposti alla loro attenzione garantiranno davvero la sicurezza della loro responsabilità. Se dovesse residuare anche soltanto un piccolo dubbio, dovranno necessariamente assolvere.

Sappiamo che media ed opinione pubblica americana, con riferimento al processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito, hanno criticato, anche pesantemente, il nostro sistema di giustizia, hanno tacciato addirittura di barbarie la nostra legge ed i nostri tribunali. Sul terreno della legge, tuttavia, per le ragioni indicate non abbiamo nulla di cui rimproverarci. Il nostro è un processo garantista, esattamente come garantista è il processo «accusatorio» americano: in entrambi, se non si raggiunge la certezza processuale della colpevolezza, è giocoforza assolvere. Un problema, se esiste, non è pertanto di legislazione, ma di prassi, di costume giudiziario, di capacità degli inquirenti e dei giudici di gestire con capacità e correttezza prove ed indizi. Ed in effetti, proprio questo è il punto, poiché è su questo terreno che, a quanto ci è stato dato di sapere dalle cronache del processo, ragioni di critica e di perplessità non sono mancate.

Uno dei profili che ha attirato la mia attenzione è stato, su questo terreno, il tema delle prove scientifiche. Sappiamo, ad esempio, che i periti del primo giudice avevano riscontrato sul reggiseno della ragazza uccisa e sull’arma del delitto tracce ematiche asseritamente decisive nei confronti, rispettivamente, di Raffaele e di Amanda; ma che una perizia disposta dai giudici di appello ha ritenuto del tutto inattendibili tali prove. Un contrasto di giudizio tecnico stupefacente, che mai, se nessun perito avesse compiuto errori, dovrebbe profilarsi in un’aula di giustizia.

Non conoscendo gli atti non sono in grado di valutare, nel caso di specie, torti e ragioni. In ciò che è accaduto a Perugia c’è tuttavia una conferma di quanto molti penalisti vanno ripetendo ormai da qualche anno: che troppe volte la prova scientifica nei processi nei quali, altrimenti, non c’è prova della commissione del reato, ma vi sono soltanto indizi, è fonte d’incertezza piuttosto che, come dovrebbe, di certezze. È accaduto, ad esempio, nel processo a carico di Alberto Stasi, dove vi è stata assoluzione, ma è accaduto altresì, a mio parere, nel processo a carico di Annamaria Franzoni, dove vi è stata invece condanna. Vedremo questa sera, o domani, che cosa decideranno i giudici di Perugia.

Carlo Federico Grosso

(fonte: La Stampa , 3 ottobre 2011)