Regina Coeli, per un giorno detenuti serviti come re

Caponata di melanzane, pasta alla Norma, involtini di vitello ripieni di mollica di pane, uvetta e pinoli, e per finire la ciliegina sulla torta a base di cassata e cannoli siciliani. È tipicamente palermitano il menù che lo chef Filippo La Mantia ha scelto per il pranzo domenicale di Regina Coeli a Roma.

Il celebre cuoco oggi ha accolto l’invito del capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta e, insieme ai suoi collaboratori, ha cucinato per 84 fortunati detenuti. «È un trattamento a cinque stelle – commentano alcuni riuniti nella “rotonda” del carcere – per noi questa è una vera festa».

I carcerati hanno pranzato insieme allo stesso Ionta, al direttore di Regina Coeli, Mauro Mariani, al comandante di reparto Gaetano Meschini e al cappellano Padre Ernesto Piacentini. «Il cibo è uno straordinario elemento di unione – dice La Mantia che nel 1985 trascorse sette mesi nel carcere palermitano dell’Ucciardone, perché ingiustamente accusato, ma poi scagionato -. Per me cucinare dentro il carcere di Roma è una bellissima esperienza. La domenica è un giorno un po’ malinconico, e questo pranzo vuole essere un richiamo alla famiglia, alle origini».

«Penso che un momento come questo possa dare, se non serenità, almeno tregua rispetto agli affanni quotidiani del carcere – spiega Ionta, promotore dell’evento -. Un grande chef ha umilmente accettato di preparare le sue specialità dentro un carcere e questo è un fatto eccezionale. Considero la sua cucina semplice e geniale: si rifà alle tradizioni e sa andare all’essenziale».

E di fronte ai piatti l’entusiasmo dei detenuti fa il resto. «Conoscevo lo chef – dice uno di loro, Michael – l’ho visto in tv e l’ultima cosa che mi aspettavo è che venisse a cucinare qui. È un trattamento a cinque stelle! Per noi è davvero una festa». «Con gesti concreti come questo la società dimostra la vicinanza a chi è più sfortunato – commenta il direttore del carcere – e questo è un gran bene perchè i detenuti ne hanno bisogno».

(fonte: Il Messaggero, 3 Aprile 2011)