Lo stato d’animo di un testimone

Nelle intercettazioni delle telefonate tra l’ex ministro Nicola Mancino e il consigliere giudiziario della Presidenza della Repubblica D’Ambrosio, divulgate qualche giorno fa, c’è un aspetto inquietante che è passato però del tutto inosservato. L’infondata polemica sulle presunte pressioni del Quirinale nei confronti della magistratura siciliana, infatti, ha oscurato quello che a mio giudizio è il dato centrale di quelle telefonate: e cioè lo stato d’animo di Mancino.

Stato d’animo che lungi dal rappresentare un mero fatto personale, appare invece, molto verosimilmente come la spia di una condizione generale del Paese: ed è per ciò, solo per ciò, che qui se ne parla.

 

Ricapitolo in due righe.  Mancino in quel momento non è indagato. Come ex ministro dell’Interno all’epoca della supposta trattativa tra lo Stato e la mafia che sarebbe intercorsa nel 1992-93, egli è un semplice testimone. Un semplice testimone, già ascoltato dagli inquirenti. Ma dalle sue parole si capisce che non è per nulla tranquillo. Che è posseduto, anzi, da un’inquietudine angosciosa molto simile alla paura. Di che cosa ha paura Nicola Mancino? Mi scuserà se lo dico alla buona: ha paura di essere «incastrato» dai magistrati che conducono l’indagine. Cioè di diventare vittima di un qualche loro «teorema», di un loro partito preso che lo trasformi da testimone in imputato. Da qui il suo smarrimento: «Io non lo so dove vogliono andare a finire…20 anni, 25 anni…» (è il tempo ormai trascorso dai presunti reati); «non si sa dove vogliono arrivare, questi, che vogliono fare…»; «…ma che razza di Paese è?»; «una persona che ha fatto il suo dovere…ma perché devo essere messo in un angolo?»; «ora facciamo pagare a Mancino…ma Mancino può essere anche emarginato, ma non è giusto» (come sul Corriere annota accuratamente Giovanni Bianconi, Mancino «sospettava che qualcuno volesse prendersi la rivincita su di lui per il caso de Magistris, l’ex magistrato messo sotto inchiesta al Csm quando lui ne era il vicepresidente»); «a mio avviso c’è un abuso grande come una montagna…»; «perché la cosa è terribile…ecco…perché a me fa perdere non solo il sonno, ma anche, diciamo…».

 

Mancino dunque è turbato e ha paura. Forse perché è davvero responsabile di qualcosa? Lo si potrebbe credere anche se tutto porta ad escluderlo: non da ultimo il fatto che a distanza di mesi e mesi egli non è ancora indagato di alcun reato. In realtà, Mancino non ha paura di essere «scoperto»: ha semplicemente paura dei meccanismi inquirenti della macchina giudiziaria italiana (cioè non dei tribunali, ma delle procure. Non ha paura cioè della «giustizia», come invece piace fraintendere alla retorica giustizialista, bensì dell’Accusa, che è cosa assai diversa). Di come troppo spesso funzionano i meccanismi dell’Accusa, del modo d’essere dei suoi rappresentanti, delle loro motivazioni inconfessate e inconfessabili, dei loro pregiudizi. Apparentemente non c’è proprio nulla di così straordinario. Alzi la mano, infatti, chi nelle sue condizioni non avrebbe gli stessi timori, chi ignora che precisamente questa è l’immagine che la stragrande maggioranza degli italiani ha della macchina della giustizia del suo Paese.

 

E invece qualcosa di straordinario c’è. Oggi infatti, grazie solo a delle intercettazioni telefoniche, si viene a scoprire che anche colui il quale per lunghi anni è stato alla testa della macchina della giustizia italiana, che ne ha conosciuto come pochi il funzionamento, e soprattutto la mentalità, i sentimenti, e le pulsioni degli addetti, anche il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Nicola Mancino, anche lui uomo del centrosinistra, pensa ciò che in tanti pensiamo delle profonde distorsioni che troppo spesso, quasi fisiologicamente, caratterizzano l’operato delle procure della Repubblica. E ne ha paura.

 

Così come sono convinto che sappia benissimo come stanno le cose, e ne abbia altrettanta paura, il maggior numero dei membri del Parlamento italiano e degli uomini dei partiti del centrosinistra. Che però non se la sentono di dirlo – allo stesso modo, del resto, come non ha mai detto nulla neppure Nicola Mancino prima che gli capitasse di averne direttamente a che fare – per il timore di passare da «nemici dei giudici», e dunque, in forza di una delle più malefiche proprietà transitive della politica italiana, per «amici di Berlusconi». Ma è ora che i magistrati italiani – e sono certamente i più – i quali hanno davvero a cuore la giustizia sappiano che è su questa finzione collettiva, è su questo autoinganno dettato dalla paura, che in realtà poggia la cosiddetta «cultura della legalità» di cui tutta l’Italia ufficiale si riempie ad ogni occasione la bocca. Peraltro augurandosi in cuor suo (o quando suppone di parlare al riparo da orecchie indiscrete) che non le capiti mai di doverne conoscere la realtà.

 

Ernesto Galli Della Loggia

 

(fonte: Corriere della sera, 3 luglio 2012)