L'assoluzione di Busco non guarisce il diritto dalla sua malattia

No, per favore. Non consolatevi, né cercate di consolarci negando quella che Mario Sechi giustamente definiva ieri la «giustizia malata» dicendo che l’assoluzione di Raniero Brusco, in appello, dall’accusa di avere ucciso ventidue anni fa la fidanzata Simonetta Cesaroni in quel maledetto ufficio romano di via Poma dimostra, tutto sommato, che il sistema giudiziario italiano funziona. È capace di garantire la correzione degli “errori”, come ha detto l’avvocato e professore Franco Coppi, compiacendosi, giustamente dal suo punto di vista, di essere riuscito a fare ribaltare il pesante e ingiusto verdetto di condanna del suo assistito, emesso in primo grado poco più di un anno fa.

 

Diciamo pure, “solo” poco più di un anno fa, meno di cinque anni dopo il ritorno del povero Brusco sotto le lenti degli inquirenti con l’iscrizione nel cosiddetto registro degli indagati, quasi tre anni dopo il suo rinvio a giudizio e poco più di due anni dopo l’apertura del primo processo contro di lui. Specie se l’accusa dovesse avere il buon senso, e anche il buon gusto, dopo tutto ciò che è successo fra indagini e processi, di non ricorrere alla Cassazione quando verrà depositato, auspicabilmente senza i solititi ritardi italiani, il testo della sentenza di assoluzione in appello, con tutte le sue motivazioni, l’avvocato Coppi, i suoi collaboratori e il suo cliente potrebbero dire di avere ottenuto giustizia abbastanza presto. Almeno rispetto ai tempi medi, o mediamente noti, della giustizia italiana.

 

Per non parlare di un altro e più celebre cliente dell’avvocato Coppi, il senatore a vita e sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti, chiamato a rispondere anche dell’assassinio di Mino Pecorelli, potremmo contrapporre ai tempi di Brusco i diciassette anni occorsi all’attuale deputato ed ex ministro democristiano Calogero Mannino per liberarsi dell’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.  Ma purtroppo non per liberarsi dell’attenzione del suo vecchio accusatore Gian Carlo Caselli, che ancora l’altra sera in televisione si doleva di una certa indulgenza -pensate un po’- che gli imputati politici e/o “eccellenti” di mafia, come Andreotti e lo stesso Mannino, avrebbero ottenuto da giudici e giornali rispetto agli imputati “comuni” della mafia “militarizzata”, di solito usciti decisamente peggio dai processi giudiziari e mediatici.  Ma, soprattutto, Mannino non è riuscito a liberarsi dell’attenzione di certi uffici giudiziari che sembrano ossessionati nei suoi riguardi, per esempio occupandosi delle sue attività agricole, come produttore di vino, o coinvolgendolo più recentemente in quel grande groviglio giudiziario, peraltro gestito o conteso tra varie Procure, delle trattative che si sarebbero svolte fra lo Stato, o suoi organi più o meno fedeli, e la mafia fra il 1992, il 1993 e forse anche il 1994. Un groviglio, peraltro, di cui la preda vera e più grossa non è certo lui, Mannino, ma il solito Silvio Berlusconi, pervicacemente immaginato dai suoi avversari, laici e togati, come l’uomo per la cui avventura politica lavorava in quegli anni la mafia compiendo, preparando o solo minacciando stragi.

 

Tutto questo in apparenza c’entra poco o niente con la vicenda  Brusco e dell’assassinio della povera Simonetta Cesaroni. Ma, appunto, in apparenza. Nella sostanza, invece, c’entra. Eccome, c’entra. In ballo c’è lo stesso problema. O, come dice Mario Sechi, la stessa «malattia». Quella di un sistema giudiziario che dai tempi ormai della vicenda del povero Enzo Tortora, e proprio a causa del modo in cui essa fu trattata, sotterrata e dimenticata, è letteralmente impazzito. Tanto impazzito che anche le garanzie volute dal legislatore per tutelare i cittadini, come i tre gradi di giudizio, e la possibilità quindi – come dice il buon avvocato Coppi – di rimediare agli “errori”, persino in tempi relativamente brevi, finiscono per aiutare la malattia a resistere. O a riprodursi più forte di prima.

 

È la malattia, cui altre possono poi aggiungersi o derivarne, come la politicizzazione della giustizia, che possiamo chiamare strapotere dell’accusa. Che è diventata una casta nella casta. È ai giudici che spetta, certamente, come ricorda sempre Caselli, la decisione del rinvio dell’indagato a giudizio, e di quello che ne consegue. Ma essi faticano sempre di più, nella logica di questo sistema, almeno per l’andazzo che esso ha preso, a resistere alle suggestioni o ai pregiudizi, politici e non,  dell’accusa.  Per cui troppo spesso i processi finiscono per diventare come i sigari. Che non si negano a nessuno.

 

Questo è il buco nero della giustizia, dal quale si può uscire solo con la separazione delle carriere. E al quale anche noi giornalisti diamo un forte contributo quando, per esempio, scambiamo i pubblici ministeri per quelli che non sono chiamandoli giudici. Ciò purtroppo capita spesso, anche nei titoli, oltre che negli articoli. E mi arrabbio da morire.

 

Francesco Damato

 

(fonte: il Tempo, 29 aprile 2012)