La giustizia ingiusta che presume la colpevolezza, non l’innocenza

Devo confessarlo: ho paura. Ho paura, vivere in questo paese mi fa paura perché sono sola, completamente sola di fronte a mostruose forze nate per tutelarmi e divenute potenziali strumenti di tortura, di ingiustizia, di sofferenza.

Sommate i casi che avete letto negli ultimi anni, anzi addirittura mesi, di innocenti incappati nelle maglie della giustizia,  vengono i brividi a scorrerne l’elenco. Basti una cifra: nel 2011 in Italia si sono celebrati 2369 processi per ingiusta detenzione, dietro ognuno di quei 2369 casi di malagiustizia c’è il dramma personale di chi si è trovato a subire ciò che non avrebbe dovuto, e il dramma dei famigliari che hanno dovuto condividere sofferenze, gogna sociale, per non parlare delle spese per avvocati, del lavoro andato in malora, e via discorrendo.

2369 casi in un anno significa 6,4 casi al giorno. Ci rendiamo conto che cosa significa? Provate a fare qualche calcolo, se anche nel 2012 si verificassero altrettanti casi, e poi nel 2013 e via discorrendo (d’altra parte le notizie che leggiamo quotidianamente non ci fanno pensare a nessuna diminuzione) quanto tempo ci vorrebbe perchè ogni cittadino italiano sia vittima dell’ingiusta-giustizia?

Oggi sul Giornale di Milano c’è una lodevole iniziativa che segue in qualche modo il pregevole libro di Ilaria Cavo, Il cortocircuito (Mondadori), ricordare il caso di Aldo Scardella che nel 1986 si suicidò in carcere dopo essere stato in isolamento preventivo con l’accusa di rapina e omicidio. L’accusa era stata formulata per aver ritrovato un passamontagna nel suo giardino che si scoprirà, dieci anni più tardi, appartenere ai veri colpevoli che se ne erano disfatti buttandolo appunto nel giardino dello studente cagliaritano.

Nessuno nega che chiunque può sbagliare, ma perchè il nostro sistema giuridico ha abbandonato il principio della presunzione di innocenza a favore della presunzione di colpevolezza?

Perché se qualcuno o qualcosa mi accusa di un crimine devo essere io a provare la mia innocenza e non chi accusa a provare la mia colpevolezza?

Se domani mattina svegliandomi trovassi in giardino una pistola, probabilmente la prenderei in mano d’istinto, quanto meno per toglierla da un posto dove chiunque potrebbe prenderla e usarla. Poi forse, telefonerei alla polizia per dire del ritrovamento, ma se quell’arma fosse stata usata nella notte per uccidere qualcuno? Come potrei io provare la mia innocenza se ho dormito da sola?

E viceversa, se la pistola qualcuno la buttasse nella siepe del mio giardino e io non me ne accorgessi fino a quando la polizia, magari indirizzata da segnalazione anonima, non la ritrovasse? Mi ritroverei come Scardella impossibilitata a dimostrare la mia innocenza e anche quando potessi dimostrarla nel frattempo mi metterebbero dentro per evitare che io fugga, che inquini le prove (quali? Quelle che non hanno trovato e che non cercano perché sta a me trovarne che mi scagionino), o addirittura che reiteri il reato.

E quanto starò dentro preventivamente? fino a un anno se il magistrato decide a suo insindacabile parere, che ci devo stare. E poi? E poi comunque vada sarò una persona distrutta, nello spirito, e forse anche materialmente; mio marito magari avrà trovato insopportabile il dubbio e mi avrà lasciato, o se crede ciecamente in me sarà parimenti distrutto. Le mie finanze tutte devolute ad un o più buoni avvocati che cerchino di tirarmi fuori da guai che non ho combinato. E i miei figli? Che per un po’ saranno stati figli di una potenziale assassina carcerata, della quale si dirà: se l’hanno messa dentro vuol dire che qualcosa ha fatto!

Ecco, io ho paura, e dovrebbe averne qualunque cittadinano di questo paese dove le garanzie di una giustizia giusta, o quanto meno di una giustizia che tenta di essere giusta, non esistono più soppiantate dal loro contrario.

La garanzia che abbiamo è che se finiamo nelle maglie di questa ingiusta-giustizia, se il sistema giudiziario ci artiglia, siamo morti ( a meno di essere veri delinquenti che hanno messo in conto di essere presi).

 

(fonte: Simonetta Bartolini, Totalità.it, 17 settembre 2012)