Giovanni Conso: “Un innocente in carcere, la sconfitta più bruciante per la giustizia”

Due volte ministro di Grazia e Giustizia, vicepresidente del Csm, Presidente emerito della Corte Costituzionale. Le tappe più importanti della carriera di Giovanni Conso bastano da sole a descrivere il livello della figura di Giovanni Conso, docente di procedura penale in diverse università italiane nonché tra i più fini giuristi espressi dal nostro mondo accademico.

Giovanni Conso è stata una delle voci più attente al problema degli errori giudiziari. Ha vissuto direttamente il passaggio dal vecchio al nuovo codice di procedura penale, partecipando attivamente alla discussione sui punti cardine della riforma. Esattamente 40 anni fa, proprio sui temi del carcere ingiusto, scriveva un articolo per il quotidiano torinese “La Stampa” in cui analizzava i punti deboli delle norme di allora, incapaci di tutelare a dovere un potenziale innocente in carcerazione preventiva, e auspicava una rapida entrata in vigore di un ordinamento che prevedesse un risarcimento per ingiusta detenzione e un uso più accorto ed equilibrato della custodia cautelare.

Per la validità dei suoi contenuti e per la lucidità delle analisi che contiene, quello di Giovanni Conso è un articolo che vale la pena di leggere ancora oggi. Per questo ve lo riproponiamo integralmente.

 

Giovanni Conso
Giovanni Conso

“Le sconfitte cui può andare incontro la giustizia penale sono di tanti tipi. La più bruciante è sicuramente quella che si verifica quando ci si accorge di aver mandato in carcere una persona che non vi doveva entrare. Si tratta, purtroppo, di cose che accadono da sempre, ma oggi la loro cadenza sembra essersi fatta più frequente, e comunque più vistosa.

Per valutare il fenomeno, decisamente preoccupante perché a subirne le spese è il bene — più che mai basilare — della libertà personale, occorre distinguere a seconda dei modi e dei tempi, invero diversissimi, attraverso i quali gli errori giudiziari di questo delicatissimo genere riescono ad evidenziarsi. Si va dal caso, senza dubbio classico, della persona condannata, che viene scoperta innocente dopo aver già scontato in tutto o in parte la pena definitiva, al caso, altrettanto tradizionale, della persona prosciolta dopo una più o meno lunga detenzione e, infine, al caso, portato clamorosamente alla ribalta dalle cronache degli ultimi giorni, della persona scarcerata prima che la stessa istruzione sia conclusa. E’ su quest’ultimo caso che si deve riflettere in maniera particolare, non solo per la sua indiscutibile attualità, essendone stati recentissimi protagonisti il capo delle guardie di San Vittore, sospettato di aver favorito la fuga della banda Vallanzasca, e due impiegati romani, sospettati di aver partecipato al sequestro Moro, bensì anche per la sua sconcertante gravità.

Se è pur vero che, nelle relative vicende, l’indebita detenzione ha normalmente una durata più breve di quanto non avvenga negli altri casi (e anzi ha talora una durata brevissima), non è meno vero che la scarcerazione deliberata in netto anticipo sulla sentenza sta a sottolineare che la limitazione apposta alla libertà personale non tollera, neppure per un attimo, ulteriori protrazioni, tanto ne risulta palese la carenza di fondamento. Il codice di procedura penale parla, in proposito, di scarcerazione per mancanza di sufficienti indizi, da intendersi nel senso di una mancanza sopravvenuta («quando vengano a mancare a carico dell’imputato sufficienti indizi», dice puntualmente l’art. 269), e ciò perché, se, già alla partenza, ovverosia nel momento dell’emissione del mandato di cattura, risultassero non esistenti « sufficienti indizi di colpevolezza », ci si troverebbe di fronte ad un mandato nullo e a una detenzione illegittima in radice.

Giovanni ConsoMa che cosa significa « indizi sufficienti »? Nonostante interminabili discussioni, accentrate sulla ricerca di un’esatta linea di confine tra gli indizi e i semplici motivi di sospetto, il margine di discrezionalità a disposizione del magistrato resta cosi lato da aprire continuamente la porta a mandati di cattura tanto «leggeri» nella motivazione quanto «pesanti» negli effetti. Basta che le indagini successive non confermino quel poco posto a base del mandato, ed ecco la costruzione dissolversi nel nulla, imponendo l’immediata scarcerazione. Questa — da non confondersi con la libertà provvisoria, che, accompagnandosi al persistere dei sufficienti indizi, si risolve in un beneficio, e non in un diritto, per il detenuto — solo formalmente rimette la situazione a posto.

Quei giorni di libertà perduta non saranno mai più restituiti a chi è stato arrestato senza una consistente ragione. Nessun indennizzo è previsto, neppure per il danno che l’arresto provoca all’intorno, nell’ambiente di lavoro e sul piano delle ripercussioni sociali. Un qualche rimedio, nel senso di irrobustire il dosaggio dei provvedimenti di cattura, si impone ormai ineluttabilmente, ad evitare il troppo frequente ripetersi di scarcerazioni pseudo-riparatrici. E a fornirlo debbono essere le leggi. Quelle attuali, con la loro indeterminatezza, lasciano troppe volte i magistrati senza una guida sicura, esponendoli al rischio, e comunque al tormento, di scelte non aliene da spinte emotive. Le tensioni che agitano la collettività e il turbamento che proviene da certe efferatezze della delinquenza organizzata trovano, nella vaghezza dei parametri preposti all’emanazione di misure detentive, il terreno ideale per una moltiplicazione di queste ultime, anche a costo di colpire individui totalmente innocenti, sulla base di semplici sospetti o di voci spesso calunniose.

Giovanni ConsoIl progetto del nuovo codice di procedura penale, oltre a prevedere un’equa riparazione per chiunque, poi prosciolto con formula piena, abbia subito un’ingiusta detenzione, regola, assai meglio di quanto non faccia il superatissimo codice vigente, i meccanismi applicativi delle misure di coercizione personale. Anzitutto, la custodia provvisoria in carcere non dovrebbe più essere l’unico strumento coercitivo di natura preventiva, ma collocarsi come ultima spiaggia cui fare ricorso soltanto quando gli altri strumenti (obbligo di presentazione alla polizia, divieto o obbligo di dimora, obbligo di rimanere in una determinata abitazione, sospensione dell’esercizio di determinate potestà o uffici o attività) apparissero non appropriati. Il principio di adeguatezza («La custodia provvisoria può essere applicata soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata») si presenta come la chiave di volta del nuovo sistema, unitamente al principio di proporzionalità (« Non può essere applicata una misura non proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata »).

Certo, tutto ciò non basterebbe a frenare i mandati di cattura rispetto agli episodi di più allarmante criminalità, ma il significato costituzionale della presunzione di non colpevolezza ne riuscirebbe sicuramente rafforzato. Due ulteriori proposte vengono, comunque, a profilarsi sullo sfondo: riguardano, da un lato, l’allargamento della responsabilità civile dei magistrati, così da ricomprendervi anche i casi di colpa grave (progetto Viviani) e, dall’altro, l’istituzione del tribunale della libertà, così da demandare ad un organo collegiale le decisioni in tema di libertà personale (proposta Pisapia). Per portarle avanti occorre, però, che non assumano sapore punitivo verso l’autorità giudiziaria e che si inquadrino in un rinnovato ordinamento giudiziario”.

Giovanni Conso

 

(Fonte: La Stampa, 27 luglio 1978)